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'Quando mi trovai da solo accanto alla Gradisca'

Notizia pubblicata il 07 dicembre 2008



Categoria notizia : Turismo


A Rimini, il cinema si chiamava Fulgor, l' ho già raccontato in quasi tutti i miei film. Adesso, nell' atrio, c' è una mia grande fotografia. Sto lì, proprio sopra la cassa, e non posso fare a meno di pensare che quando c' è un film che non piace, la gente uscendo se la prenderà un po' anche con me, mi guarderà con delusione (...). E la moglie del farmacista, che andava al Fulgor per farsi tastare? Vedeva i film tre o quattro volte di seguito, e tutto attorno a lei era un gran carosello di giovanotti, anche noi ragazzini tentavamo la grande avventura, cambiando posto in continuazione con una lenta marcia di avvicinamento.

Poi c' era Baghino, che stava ritto nel buio dietro le tende, per spiare sulle facce degli spettatori la minima espressione di insofferenza quando sullo schermo, nei cinegiornali, appariva il Duce, e poi correva a dirlo al Fascio. Una volta, in quattro, l' hanno arrotolato dentro la tenda, facendolo girare come un salamone appeso al soffitto e legandolo alle caviglie e sopra la testa. Da là dentro, lanciava urla da bestia, ma nessuno aveva il coraggio di andarlo a liberare. Siccome per via della Bottega dell' Arte, io ero diventato un personaggetto abbastanza noto, avevo fatto un contratto col proprietario del cinema Fulgor. Costui assomigliava a Ronald Colman e lo sapeva. Portava l' impermeabile anche d' estate, i baffetti e manteneva una costante immobilità, per non perdere la somiglianza, come fanno quelli che sanno di assomigliare a qualcuno. I lavori che facevo per lui - caricature di "divi" interpreti dei film in programmazione, messe nelle vetrine dei negozi a scopo di propaganda - gli erano dati in cambio dell' ingresso gratuito al cinema Fulgor. In quella calda cloaca di ogni vizio che era il cinema allora, c' era la maschera Madonna (da noi si dice così Madonnaccia al posto di Cristianaccio, per dire un omaccione grande e grosso). L' aria veniva ammorbata da una sostanza dolciastra e fetida, spruzzata da quella maschera. Sotto lo schermo c' erano le pancacce. Poi, uno steccato, come nelle stalle, divideva i "popolari" dai "distinti". Noi pagavamo undici soldi; dietro si pagava una lira e dieci. Nel buio, noi tentavamo di entrare nei "distinti" perché là c' erano le belle donne, si diceva. Ma venivamo agguantati dalla maschera, che stava nell' ombra e spiava da una tenda; sempre tradita, tuttavia, dalla brace di una sigaretta, che si vedeva nel buio. Dopo le caricature, io avevo ottenuto l' ingresso gratuito per me, Titta e mio fratello. Una volta che c' ero andato, vidi la Gradisca sola, nei "distinti". Scavalcai lo steccato, sfuggendo alla sorveglianza di Madonna; mi fermai a guardare la Gradisca, col batticuore. I capelli della donna, luminosi, biondi, erano battuti dal fascio di luce che usciva dalla cabina. Mi sedetti, forse per l' emozione: prima lontano, poi sempre più vicino. Lei fumava lentamente coi suoi labbroni. Quando ebbi raggiunto la poltroncina accanto, allungai una mano. La sua coscia opulenta, fino alla giarrettiera, sembrava una mortadella chiusa dallo spago. Lei lasciava fare, guardando in avanti, stupenda e silenziosa. Andai oltre, con la mano, fino alla carne bianca, polposa. A questo punto, la Gradisca si voltò lentamente e mi chiese con voce buona: «Cos' è che cerchi?». Io non fui più capace di proseguire. © "Fellini al Fulgor" a cura di Gianfranco Gori, "Quaderni di Rimini Cinema", n. 5, 1987