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Il mitico fotografo Philip Griffiths al festival di Savignano

Notizia pubblicata il 16 settembre 2007



Categoria notizia : Musica


PHILIP JONES GRIFFITHS. Il nome è leggendario, per gli appassionati di fotografia. Griffiths è quello delle foto scattate in Vietnam che nessuna testata americana voleva pubblicare.

Il primo a testimoniare le sofferenze della gente, nel Sudest asiatico.

Ma è anche quello dello scoop su Jackie Kennedy, immortalata in vacanza con un amico in Cambogia.

Uscito dalla mitologia e volato da Londra in Romagna, Griffiths è l'ospite d'onore del Savignano Immagini Festival.

Nella cittadina sarà visibile fino al 7 ottobre la sua mostra intitolata Middle Years. Si tratta di un'esposizione sulla realtà inglese degli anni '60 e '70, un lavoro intimo affrontato con l'incisività che caratterizza gli scatti più importanti, quelli che hanno influenzato l'opinione pubblica mondiale negli anni '70.

Il fotografo gallese, 71 anni, ha trascorso gli ultimi trenta in America.

Come è cambiato il lavoro del reporter di guerra negli ultimi anni, signor Griffiths?

"È cambiato molto, indubbiamente. Bisogna lavorare ancora più sodo, perché è la stampa è molto controllata. Credo che ormai l'unico modo possibile di operare sia embedded, imboscati con le truppe.

Infatti i migliori scatti fatti in Iraq sono stati fatti da fotografi militari. Però c'è da dire che una delle cose buone della fotografia digitale è la facilità di trasmissione. Se si segue una guerra, è facile spedirle e non è per niente costoso".

Ma lei non teme il dilagare della fotografia digitale? Non teme che che chiunque possa fare foto e cancellare la professione?

"No, perché un fotografo ha buon occhio, un buon cervello, è in grado di cogliere il momento. Ogni giorno vengono scattati milioni di immagini, eppure i professionisti continuano a esistere. L'unico elemento che non mi piace davvero del digitale è che le immagini non hanno sostanza, non c'è prova fisica".

In Italia ora si parla molto dei limiti oltre cui la stampa non dovrebbe spingersi, in fatto di privacy. Cosa ne pensa?

"Il problema c'è sempre stato. Ricordo il polverone che nacque quando Frank Sinatra fu accostato agli ambienti della mafia. In realtà le foto dei paparazzi non sono quasi mai rubate, perché attori e cantanti hanno bisogno costante di pubblicità".

A Savignano sul Rubicone la sua mostra racconta la Gran Bretagna di qualche decennio fa. Ma non ci sarebbe più bisogno di un'esposizione sulla società inglese attuale?

"Non ho foto dell'Inghilterra recenti, perché vivo in America da 30 anni. Middle Years è stata realizzata perché pone un punto di vista interessante.

Tutto il mio lavoro è basato sulla qualità del punto di vista. In Algeria, in Cambogia, quando ho iniziato, lì ho imparato l'importanza di guardare dietro le cose. E sono stati buoni allenamenti per il Vietnam.

Queste immagini sono naturali, sono un documento che va oltre ogni scetticismo o cinismo. È come quando un bambino apre il regalo di Natale e non crede ai suoi occhi: non può essere vero, dice".

Eventi come questo festival sono una buona scuola per i fotografi emergenti?

"I giovani devono ricordarsi che questo è il miglior lavoro del mondo. Che per farlo devi essere lì.

La cosa più importante è dare un significato agli scatti che si fanno. Se si trova il significato, la fotografia può raggiungere anche la gente che non è culturalmente educata a questo medium.

Le foto pubblicate oggi nelle riviste sono spesso triviali, e questo confonde le persone. Le foto non hanno l'obiettivo di cambiare il mondo. Però possono spiegarlo, aprire gli occhi e la mente".