La mia musica va in mostra per far risuonare l’arte
Notizia pubblicata il 04 giugno 2009
Categoria notizia : Musica
DECLINATO al femminile, il termine compositore è raro, quasi un’eccezione a conferma della regola che il mondo della musica è ancora un terreno fertilizzato dal solo genio maschile.
Ma quando la passione è tanta non ci sono dighe di genere che tengano, non ci sono ostacoli (familiari o economici) che non si riescano ad abbattere, e alla fine anche il destino ci mette lo zampino perché il sogno possa realizzarsi.
A Paola Samoggia, quasi 45 anni, bolognese, è successo più o meno questo. All’indomani del diploma in pianoforte al conservatorio di Carpi con stretta di mano del direttore che la incoraggiava a intrapredere la carriera di concertista, lei chiuse la tastiera. «Non mi piaceva insegnare e quella era l’unica attività che mi avrebbe permesso di vivere».
E allora rispolvera i suoi studi d’informatica e si dà alla programmazione dei software. Ma il tarlo della musica continuava a batterle in testa fino a diventare un’impellenza cui dare sfogo. Una questione di vita o di morte. E incontra il sax, i ritmi jazz, la sperimentazione del laboratorio persicetano di Giorgio Casadei e della sua Orchestra Spaziale. «Fu lui — racconta oggi che è diventata una delle più apprezzate creatrici di colonne sonore per eventi espositivi nonché inventrice dei generi del fotogramma musicale e della scenografia sonora — a farmi conoscere e apprezzare il mondo delle dissonanze. Io che mi rovinavo su Chopin, scoprii l’improvvisazione e scardinai così la mia impostazione classica».
Com’è però avvenuto l’incontro con le immagini?
«Frequentavo il flautista Massimo Mercelli che mi ha trasmesso l’amore per l’arte contemporanea. Solo che guardando le opere mi accorgevo che in testa mi si formavano spontaneamente dei suoni, non tuttavia scaturiti da strumenti classici ma riproducibili solo in via elettronica. Così dopo 15 anni di programmazione, ho iniziato ad abbinare le mie conoscenze informatiche con questa ispirazione visiva. Nel marzo del 2003 ho esordito con le “Criografie” di Nanni Menetti, dedicandogli il fotogramma “Ghiaccio”.
L’esperienza com’è proseguita?
«Spingendo sempre più in là la sperimentazione, fin quasi ai limiti dell’udibile com’è successo con un’antologica di Emilio Vedova per la quale ho campionato una serie di rumori di seghe, lame, trapani, unendovi delle vibrazioni sonore acutissime. Un pugno nello stomaco. Però, anche grazie alla sensibilità e al coraggio di Leonardo Conti e della sua galleria milanese PoliArt, l’impostazione di far parlare due mondi apparentemente agli antipodi come la musica e l’arte contemporanea ha sfondato. Ora c’è gente che se a un’inaugurazione non sente il sottofondo sonoro, si sente quasi persa».
Come nasce un suo pezzo?
«Mi concentro sull’artista guardando e riguardando i quadri perché anche la materia suggerisce emozioni e visioni, poi leggo i cataloghi, i testi critici a disposizione e inizio un periodo di riflessione di solito parecchio lungo, circondata in casa dalle tracce di quell’artista alla ricerca dell’equilibrio timbrico che naturalmente scaturisca dalle sue opere».
Sempre e solo elettronica?
«No, altre volte compongo per violoncello o suono al piano, per esempio, ma sempre cercando di ottenere dalle corde le stesse suggestioni che l’artista emana dall’oggetto che crea. E lo stravolgimento al computer è un passaggio quasi sempre necessario perché solo la programmazione elettronica dà una sincronizzazione così precisa del suono, così aderente all’idea timbrica originaria».
Quanto si guadagna?
«In realtà l’unico aspetto remunerativo dell’attività è quello legato alle musiche per documentari e spot video dove però è richiesta una creatività più riposante per le orecchie, di più morbido impatto, perché no, talvolta anche cantabile. Anche se io trovo sempre il modo d’inserirci qualche dissonanza».
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