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Mostra Boldini Ferrara Palazzo Diamanti
Notizia pubblicata il 04 gennaio 2010
Categoria notizia : Cultura
Pariginità, modernità. Con questi due termini l'intellettuale Robert de Montesquiou tentò di sintetizzare l'irresistibile incanto che promana ancor oggi delle opere di Boldini, specchi insuperati di una società - quella della Belle Époque - che amava essere rappresentata secondo principi di eleganza e fascino. In questo l'artista ferrarese fu davvero insuperabile, basti pensare ad alcuni tra i suoi ritratti più noti, come quelli della contessa Emiliana Concha de Ossa o di Verdi, ma anche a quello dello stesso Montesquiou, in cui certamente non è solo la virtù quasi fotografica dell'artista ad esprimersi, ma la capacità di architettare un carattere attraverso un gesto e di evocare l'aura di tutto il mondo che lo circonda
È ai ritratti realizzati senza pause dagli anni Ottanta dell'Ottocento che leghiamo indissolubilmente l'arte di Boldini, ma resta meno esplorata la fase antecedente, quella che corrisponde al suo arrivo nella Ville Lumière dall'apprendistato toscano. A questa opportuna analisi è dedicata la mostra «Giovanni Boldini nella Parigi degli Impressionisti», allestita al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, a cura di Sarah Lees - accompagnata dal catalogo curato edito da Ferrara Arte (Ferrara, 2009, pagine 232, euro 47) , organizzata in collaborazione con lo Sterling and Francine Clark Art Insitute di Williamstown, l'istituzione statunitense che possiede la maggior parte delle opere dell'artista presenti in America e che in seguito la ospiterà.
Allo stesso tema - con l'ausilio anche di opere di altri artisti italiani operanti nella Parigi di quegli anni - si applica anche la mostra «Boldini e gli italiani a Parigi. Tra realtà e impressione» in corso a Roma al Chiostro del Bramante (catalogo a cura di Francesca Dini, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2009, pagine 253, euro 35). Attraversiamo così una carriera cangiante, che prima di trovare la propria più profonda e feconda vocazione nei ritratti dell'alta società - specie quelli femminili di grande formato - ha oscillato nella sperimentazione di stili differenti, a volte contrastanti. Dal Ritratto di Diego Martelli , uno dei più noti della primissima fase fiorentina, che ebbe inizio nel 1864, quando dalla periferica Ferrara Boldini volle iscriversi, senza terminarla, all'Accademia di Belle Arti di Firenze, alle Sorelle Lascaraky , la mostra ci descrive un pittore vicino ai macchiaioli, ma già abile autore di ritratti e di interni che si esprime con un linguaggio spontaneo e anticonformista. La chiave di volta della carriera, naturalmente, è la decisione di trasferirsi in modo stabile a Parigi nel 1871, tre anni prima della mostra che avrebbe presentato al mondo dell'arte gli impressionisti.
Appena giunto nella capitale eccolo quindi impegnato in una produzione di tele piccole e dettagliate di stile neo-settecentesco, l'opposto di ciò che faceva a Firenze. Questo perché se nella città toscana il punto di riferimento erano gli amici macchiaioli, a Parigi diventa invece il pittore alla moda Meissonier, autore di raffinate scene in costume. Ma Boldini non era certo un personaggio propenso ad adagiarsi, per cui parallelamente a questa produzione di genere riuscì a portare avanti anche lo studio in chiave realista del mondo moderno. Si dedica, così, sia a quello che aveva davanti agli occhi quando usciva dal suo studio - ed ecco lo spazio spalancato e vitreo di Place Clichy (1874) dove la minuziosità pittorica si incarica di rendere leggibili anche i distanti cartelloni pubblicitari - sia alla realtà dei paesaggi nei dintorni di Parigi, come nella vibrante Grande strada a Combes-la-Ville (1873); entrambi i percorsi sotto l'influenza, questa volta, delle ricerche impressioniste in grande formato.
La riflessione che si può delineare scorrendo la sequenza di opere è che Boldini riuscì sempre nell'impresa di attingere dai fermenti artistici dell'avanguardia impressionista o dalla tradizione gli strumenti che gli potevano servire per far breccia nel mercato, in una continua sperimentazione che gli procurò dall'altro lato gran parte dei problemi che ebbe con i critici, che lo accusarono di contraddittorietà quando non di superficialità. L'amicizia con Degas, impressionista sui generis, è un ulteriore indice di questa predilezione per una posizione di equilibrio, ibrida, e in mostra possiamo ammirare i rispettivi ritratti a matita che si fecero i due artisti. Prima di giungere alla maturità piena con la sua cifra inconfondibile, Boldini ha agito come una specie di radar, mettendo a frutto una capacità straordinaria di captare e piegare ai propri fini territori pittorici che venivano dissodati con radicalità da altri.
Un navigatore della pittura, insomma, ma anche un attento interprete del gusto metropolitano che praticherà una sorta di assemblaggio linguistico in vista di un obiettivo che gli era fin dai primi passi chiarissimo e incrollabile: il successo. E la cifra nasce proprio dall'incontro di due diverse tendenze risolto genialmente: alcune parti dei dipinti, in particolare i volti dei ritratti, vengono definite con precisione, altre zone sono invece lasciate ad un grado di dettaglio minimo, quasi come se si trattasse di un bozzetto, ma senza entrare nelle questioni ottiche affrontate dagli impressionisti. È un'arte difficilmente catalogabile dai contemporanei. I risultati strepitosi raggiunti nei ritratti del bel mondo portano Boldini, verso gli anni Ottanta, alla consacrazione del mercato.
Lo stile anticipa il dinamismo che solo un trentennio dopo sarà alla base del futurismo, ma si rintracciano anche umori che, pur conservando l'illusionismo, apparterranno addirittura all'informale: basti vedere l'incastro di pennellate dense e veloci della Cantante mondana (1884) o l'istantaneità del Bimbo con il cerchio e dei Due cavalli bianchi (1881-86), parti smembrate di un'unica tela. Le sciabolate di colore e le porzioni di non-finito concedono l'azzardo di ipotizzare, in ultima analisi, un'arte in un certo senso processuale, capace di mettere in luce i meccanismi stessi della propria produzione. La mostra si conclude un passo oltre questa soglia, permettendoci di ammirare nelle ultime sale alcuni dei grandi ritratti della fase matura, come quello di Cecilia de Madrazo Fortuny e quello conclusivo del collega James McNeill Whistler, che quasi buca la tela con il suo sguardo infuocato e la lama bianca del profilo della seggiola. In questo momento Boldini è entrato definitivamente nelle grazie della sua vasta committenza internazionale: l'obiettivo è raggiunto e le incertezze della critica lasciate alle spalle. Come aveva previsto l'amico Diego Martelli, l'incanto e lo sbalordimento delle sue opere dissolvono le teorie, e Boldini vince.