Fiorucci, ritorna il grande timido dell’arte
Notizia pubblicata il 20 luglio 2009
Categoria notizia : Cultura
MOSTRA «evento» quella di Franco Fiorucci a Palazzo Gradari. Fra riservatezza e pessima capacità di auto-promozione, sono passati anni senza che potessimo avere il privilegio di seguire la sua avventura artistica!
Sono 50 anni che rimaniamo stupiti e ammirati davanti alle sue opere elargite con parsimonia e proposte quasi sottovoce, forse per non confondersi col gran rataplan promozionale di molti: sono i suoi acquarelli di piccolo e medio formato che, con tecnica concisa e illuminante chiedono, a noi riguardanti, l’adeguamento magico alla loro trasparenza materica, alla loro irrequieta ventosità, delirante passionalità e a quella luce che pare abbia la capacità di nominare le cose.
Non si può relegare Franco Fiorucci in un tema, in una tecnica pittorica, in un’etichetta stilistica: è un artista assoluto che ama la Terra, la maestà ventosa degli alberi, la cupa misteriosità del mare, la grazia di una casa colonica abbandonata, il mutare di clima e stagioni, la luce del giorno metafora della notte che si attarda nel fondo di ogni colore; è curioso di ogni pietra, ogni conchiglia, ogni sentiero; percorre, come avventura, i labirinti naturali dei greppi e dei cespugli sconnessi dalla sassifraga, si stupisce per l’immediatezza della tempesta e della bonaccia e per quell’orizzonte nero e nudo ristrutturato dal gesto liquido del suo pennello; ama la campagna verso il Montefeltro, patria di addolorati palpiti infantili, quasi a inseguire un «entroterra» dell’anima che non è geografico, ma ideale e sacrale, sospeso in quel «milieu» di sogno e memoria, di mitologia e presente, di sguardo e di incantamento aspro, ventoso.
Il frequente, solitario peregrinare in questo «entroterra», ci viene restituito nel delirio visionario delle sue opere; le colline in tutte le tonalità di azzurro come risucchiate dalla loro lontananza, la terra prosciugata dal sole, i fuochi d’erba, la luce bianca della pietra e i viola impregnati di umori sotto i filari delle viti a preparare l’iride al trionfo dei grappoli maturi e laggiù, oltre l’ultima ansa della collina rugosa, improvviso ed emozionante il mare, col suo fondale chiaroscurato e cangiante. Il mare, luogo della più alta «essenza», della più drammatica e mutante «presenza», del più totale smemoramento. Di sfrenata vitalità, il lungo, ricorrente, ostinato, metaforico capitolo dei buoi.
Coi loro sguardi pazienti, sapienti e dilatati oltre l’umano sono la sua primaria metafora di tenerezza, calore domestico, carnalità, sacralità e desiderio: sono il pensiero dominante di «un romanticismo trasfigurato nei segni di un simbolismo e una visionarietà che assume il reale per denunciare i limiti oggettivi e affermare l’infinita potenzialità simbolica» come ha scritto di lui Silvia Cuppini.
É coi buoi che Fiorucci esalta, fino alla visionarietà, la forza immaginifica del suo essere stellare e ardito disegnatore: quasi un patrimonio genetico coltivato con rigore, intelligenza, cultura e sacrificio in unità di intenti che celebrano la misura alta e morale che gli ha permesso di non cadere mai «nella trappola di una libertà presuntuosa o di una ricerca formale, ma si è tenuto in costante coscienza fra i mezzi e i fini del proprio discorso» come precisò Valerio Volpini in un saggio.
Pittore attento a sé ma senza narcisismo, tormentato da memorie e presentimenti di solitudine, consolato e sorretto sempre da sua moglie Wanda e dalla Fede di una spirituale salvezza, Fiorucci ha convogliato fugacità dei giorni, schiuma dei desideri, debolezze, progetti, talenti, folgorazioni, nella complessità dell’inveramento artistico della sua naturale vocazione e nel sogno metafisico di una trascendenza incarnata, le forme superiori della coscienza del «sacro». Qualunque siano le novità di questa Mostra 2009 (dal 23 luglio, ore 18, al 23 agosto, orario 17,30-20,30) non potranno uscire mai dalle premesse che hanno formato e nutrito l’artista per tutta la vita, rendendolo grande e amato.
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