Daria Bignardi: 'La mia infanzia a Castello'
Notizia pubblicata il 22 gennaio 2010
Categoria notizia : Cultura
LUGO. Come in un affettuoso "amarcord" di ricordi autobiografici Daria Bignardi ha descritto una storia individuale, di una famiglia, di un'epoca in "Non vi lascerò orfani" (Mondatori). La giornalista e conduttrice delle "Interviste barbariche" e "L'era glaciale" sarà ospite questa sera del Caffè letterario all'Ala d'oro di Lugo, con l'intervento di Patrizia Randi, e il 24 gennaio alle 17.30 degli incontri con il pubblico al Mega Forlì, con la presentazione di Pietro Caruso.
Andando alla ricerca delle "rispondenze dell'amore", Daria Bignardi scava tra ironia e commozione nel proprio io familiare a partire dalla scomparsa del genitore, la morte della madre, momento che non lascia un piccolo orfano ma un "orfano adulto". Attraverso il proprio "lessico familiare", quel codice privato di parole e modi di dire che rende ogni famiglia unica, dai ricordi e le paure dell'i nfanzia fra Ferrara e la campagna di Castel San Pietro alle memorie di genealogie e personaggi ed eventi vicini e lontani ai Devo, De André e i Supertramp, tutto è storia individuale, di una famiglia, di un'epoca, tutto ha lasciato un segno e ci ha resi ciò che siamo. «La mia - scrive - era una città piccolo-borghese che ha mantenuto certe tradizioni anche se, da queste parti, molte cose sono cambiate, come nel resto del Paese».
Bignardi, com'è nata questa sua esigenza di scavare, di raccontarsi nella storia familiare, viaggiando in quello che ricorda come «un mondo che non c'è più dove le famiglie erano grandi e non allargate»? «Ho sentito l'esigenza, una volta rimasta completamente orfana, di raccontare, per fermare i ricordi, non perderli, riviverli, e anche per ricordarmi come sono stata fortunata ad avere una famiglia simpatica ed affettuosa, per quanto ingombrante. Ma probabilmente dall'adolesce nza in avanti, ogni famiglia è ingombrante, e ogni figlio per crescere se ne deve sbarazzare per un po'». Come ha scoperto che raccontare, parlare della morte «è parlare della vita... con tutti i suoi ricordi»? «Forse l'ho sempre saputo, avendo perso mio padre a vent'anni.
Ma allora forse non ero pronta per i ricordi, e nemmeno per affrontare il dolore della perdita di un genitore». E come si riesce a superare quel senso di colpa di sentirsi «colpevoli per non aver dato abbastanza» per quanto abbiamo avuto dai nostri cari? «Credo che sia un sentimento comune a tutti i figli, e lo dobbiamo accettare e superare per forza. A nostra volta perdoneremo i nostri figli, che non ci daranno abbastanza. Mia madre una volta mi disse: "Una madre non si offende". Penso avesse ragione». Un ritratto della società della provincia italiana degli anni '60 e '70. Oggi che si parla di "bamboccioni", non rischiamo di diventare un Paese di "orfani adulti", senza maestri e, prima ancora, senza padri e madri, soffrendo anche la mancanza, di quello che lei ha definito: «Il calore di esperienze condivise», che aiutano a crescere senza smarrire «radici e identità»? «Credo che ogni famiglia abbia i suoi meriti e i torti. Le famiglie possono essere soffocanti e terribili, oltre che protettive e affettuose. Certamente il calore dell'i ntimità familiare è indispensabile per imparare ad amare gli altri e anche se stessi. Non so se stiamo diventando un Paese di orfani adulti. Le cose cambiano, e il tempo non si ferma e non si deve fermare. Ma forse si può conservare quel che per noi è importante».