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Vandana Shiva spiega il suo modello di sviluppo

Notizia pubblicata il 14 maggio 2009



Categoria notizia : Cultura


CONSIDERA il suo più grande successo l’aver creato le banche dei semi, contribuendo così a salvare la biodiversità contro l’omologazione che anche in agricoltura portano le multinazionali con i loro ogm, le produzioni estensive e indistinte in ogni angolo del pianeta, la lottizzazione delle terre rese fertili a forza con prodotti chimici irrorati senza misura.

Per Vandana Shiva, 57 anni, la filosofa ambientalista indiana (ma con laurea in Fisica) considerata la massima teorica dell’ecologia sociale, leader dell’International Forum on Globalization e vincitrice nel ’93 dei Right livehood award (il Nobel alternativo), solo assecondando la natura si potrà elaborare un modello di sviluppo che non distrugga il nostro habitat e quindi noi stessi.

Nei miei libri Violence of the Green Revolution e India divided — spiega — dimostro come ciò che facciamo contro la natura, lo facciamo contro noi stessi e la nostra società e se distruggiamo le risorse della terra, noi distruggiamo la nostra stessa capacità di sopravvivere». Diventa quindi una questione di vita o di morte proteggere i nativi e i loro modi tradizionali di affrontare il mercato e difenderne le caratteristiche atavicamente tramandate come fonte di ricchezza contro cui ogni ricorso alle biotecnologie diventa inutile, superfluo, perfino dannoso.

A questo fine, nel 1991, ha fondato il movimento Navdanya, che, abbracciando il verbo nonviolento di Gandhi, aiuta i contadini a combattere l’esproprio sistematico delle loro consuetudini secolari a vantaggio di un’agricoltura industrializzata e monopolizzata da chi fa business anche sulla loro necessità di sfamarsi.

Qual è allora la sua definizione di ecologia?
«E’ l’insieme delle interconnessioni e dei processi che permettono alla vita di funzionare. La nostra società ha mostrato una marcata cecità nei suoi confronti arrivando a distruggere l’ambiente e conducendo l’umanità a un passo dall’estinzione».

Il progresso quali strade, allora, deve intraprendere?
«Il progresso dev’essere basato sul riconoscimento che ciascun uomo è portatore di pari dignità e che vanno salvaguardati i bisogni primari: cibo, acqua, protezione, educazione. E, ovviamente il progresso deve avere la sua base nella democrazia, nel senso più profondo che io attribuisco a questa parola: democrazia della terra. Ciò contribuisce anche ad allargare la pace nel mondo perché laddove sono soddisfatti i bisogni primari, c’è anche cooperazione e pace. La violenza erompe quando vengono negati i diritti politici ed economici della gente».

Che cosa cambia se a combattere questa guerra è una donna?
«Le donne sono sempre state lasciate a badare ai bisogni primari come acqua e cibo, casa e bambini, quindi sono più vigili degli altri se l’acqua s’inquina, il cibo scarseggia, i bambini si ammalano. La differenza fondamentale non sta nel genere ma nella divisione sociale delle occupazioni e dei lavori».

Che cosa deve intendersi per sostenibilità ambientale?
«Le culture che sono sopravvissute a migliaia di anni hanno già superato il loro test di sostenibilità e quindi sono le uniche che offrono il modello di sostenibilità per il futuro».

Stasera a Bologna, insieme a Michele Placido che darà voce ai classici, parlerà in Università di povertà e ingiustizia sociale. Vanno necessariamente insieme?
«Come idea astratta, la povertà è in grado di distruggere le culture che sono arrivate a riconoscere e soddisfare i loro bisogni. L’ingiustizia si produce per la convergenza delle ingiustizie legate al clima, al cibo, all’acqua».

foto by http://www.flickr.com/photos/u2005/