Boldini, effetto notte di un italiano a Parigi
Notizia pubblicata il 14 ottobre 2009
Categoria notizia : Cultura
Questa è storia nota della «belle époque». Farsi fare il ritratto da Giovanni Boldini, il pittore italiano che teneva banco a Parigi, fu il sogno di tutte le signore del bel mondo (anche d'America) tra finale di Ottocento e primo Novecento. Furoreggiava la sua mostruosa abilità tecnica, con eccitazioni di «modernità»: la disinvoltura maliziosa delle pose, il taglio veloce del disegno e le varianti di luci, la vivezza realistica sposata a tocchi di elegante sprezzatura
Anche se i critici lo accusavano di «abuso della mano», di effettismo. Ma anche questa è storia nota, in molte occasioni rifatta. Meno noto è il percorso compiuto dall'artista prima del trionfo mediatico. Ci prova ora Ferrara, la città dove nacque nel 1842 e nella quale c'è un suo museo permanente.
Una mostra a Palazzo dei Diamanti - sede di rassegne di collaudata serietà - punta sul rapporto dei primi decenni con Parigi, dove trascorse la sua lunga vita dal 1871 alla morte (1931). La ricerca, sostenuta da opere prestate anche da grandi musei e da un impegnato catalogo, è condotta in collaborazione con lo Sterling and Francine Clark Art Institute di Williamstown, città del Massachusetts che possiede un cospicuo deposito di opere di Boldini, e americana è anche la curatrice Sarah Lees.
Anche Boldini dunque, come De Nittis, come Zandomeneghi, come Martelli, tutti «les italiens de Paris», compie il pellegrinaggio obbligato alla Ville Lumière. Fa la prima capatina nel 1867, dopo anni trascorsi a Firenze, che ora gli fa «l'effetto di un borgo di villaggio». Va prima a Londra nel 1870, mecca del collezionismo, e da lì cala a Parigi.
Si adegua subito ai modi che imperavano a Parigi: la pittura di genere in abiti settecenteschi, intessuta di minuzie cromatiche, di Meissonier e di Fortuny. Capisce che la novità nel sistema dell'arte non sta nei Salons, le mostre ufficiali, ma nel libero mercato. Si lega (ma non troppo) a Goupil, il mercante massimo, comincia a vendere alla grande. Lascia la prima amante Berthe per una nobile, la contessa De Rasty, moglie di un collezionista. Il resto lo fa la sua bravura: «Qui si lavora molto e si è pagati bene, ci si diverte e si arriva ad avere tutto ciò che si desidera», scrive già nel 1872 all'amico toscano, il pittore Cristiano Banti. I quadri in mostra confermano la facilità con cui, più che imitare i maestri tradizionali, si candida a loro erede.
Ma gli innovatori, i giovani, gli impressionisti? Non li frequenta molto. Però dimostra che può fare tutto bene, come loro. Dipinge en plein air alcune vedute di respiro luminoso (La grande strada a Combes-la-Ville, 1873) . Si cimenta anche in vedute della metropoli che cambia, con minore efficacia di quelle in cui va eccellendo il pugliese De Nittis. Ma è bravissimo nel cogliere personaggi di «vita moderna» con straordinaria vivezza (Lo strillone, 1880).
Il suo colpo di genio è però lo studio dei cavalli con carrozze, protagonisti del dinamismo urbano. Due tele - una coppia fremente di cavalli bianchi in corsa, e lo scorcio ardito di un bimbo con cerchio afferrato al volo dalla madre prima di essere travolto - dovevano far parte di una grande composizione mai realizzata: sarebbe stata la prima opera epica su un incidente di traffico urbano. Del contesto fa parte un altro quadro che mi incantò quando lo vidi anni fa nel museo ferrarese: un Notturno a Montmartre, guizzante di traiettorie curve contro impasti di bruni profondi e luci di fanali. È forzato parlare di pre-futurismo, certo questo imperioso affondo nella cultura del dinamismo scavalca a piè pari gli studi di Muybridge e le corse di cavalli di Degas.
Ma così ci siamo inoltrati negli anni Ottanta. La sua pittura ha acquisito franco slancio di evocazione della vita notturna, caffè, teatri, concerti, con tagli spaziali e scatti e macchie di colore. C'entra anche l'amicizia consolidata con Degas. Intensità di gesti e libertà cromatiche che potevano preludere a sentori espressionisti, se nel frattempo Boldini non avesse deciso di dedicarsi alla ritrattistica, la sua miniera d'oro. Vince persino il confronto con lo stesso Degas quando si ritraggono a vicenda. Virtù verificata già da opere degli anni fiorentini, celebrata col ritratto di Giuseppe Verdi (la versione in pastello del 1886, più bella di quella ad olio) e di altri artisti (Menzel, Whistler), esaltata nella sensualità di modelli femminili, come il Ritratto di Alice Regnault e La lettera mattutina. L'ultima sala raccoglie una selezione di ritratti eccellenti dei Novanta, alcuni dei quali mai visti prima in Italia, sino a quello della famosa danzatrice Cléo de Merode, 1901.
Ma prima di essa, una saletta raccoglie le prove quasi segrete di altre ricerche linguistiche che avrebbero potuto portare Boldini chissà dove: studi di interni disfatti, peraltro tutti già visibili, per chi avesse avuto occhi, nel museo ferrarese. Con i loro giochi di rispecchiamenti, con la vita silente - duchampiana direi - degli oggetti. Una sedia che dondola, una cornice dorata che brilla, l'amato calco in gesso di un busto del Bernini come fantasma bianco nel buio della stanza del pittore, la sua camera oscura.