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Proietti: «Il varietà l’ho inventato io».In aprile a Bologna il nuovo show

Notizia pubblicata il 15 marzo 2009



Categoria notizia : Spettacoli


A ROMA lo hanno visto in duecentomila. Perché quando Gigi Proietti torna in scena, mischiando voli fantastici ad accelerazioni musicali, citazioni colte a improvvisi silenzi, l’evento è garantito. Si intitola Di nuovo buonasera lo show dei grandi numeri (in platea ma anche sul palco, visto che ad accompagnare il mattatore ci sono ben ventotto artisti, fra musicisti, ballerini, cantanti e attori) che arriva il 22 e 23 aprile al PalaDozza di Bologna (prevendite già aperte).

di CLAUDIO CUMANI
— BOLOGNA —
Ancora liriche d’amore e scenette esilaranti, canzoni romane e repertorio internazionale. Un filo rosso che l’one man show insegue dai tempi di A me gli occhi, please

Proietti, si può dire che in questi suoi exploit lei abbia inventato un nuovo modo di fare spettacolo?
«Era ora che qualcuno se ne accorgesse...Prima di “A me gli occhi” non c’era assolutamente niente di simile. Ma già a quei tempi il mio varieté puntava a una ricerca espressiva, a una contaminazione di generi, a un mix di linguaggi alti e bassi. Poi, via via, si sono aggiunte sul palco parecchie persone, un po’ perché mi sono stufato di stare sempre solo in scena, un po’ perché pure io devo tirare il fiato»

E adesso?
«Lo spirito è sempre quello: cambiare marcia, ritmo e contenuto. Ovvero affrontare il varietà in tutti i suoi aspetti, mischiare l’alto e il basso. Partiamo con un atto unico di Eduardo, che è un doveroso omaggio. E poi via con momenti sentimentali, sketch e malinconie. Un gioco che raggiunge il suo apice nella farsa finale».
Portare in giro uno show con 28 persone è economicamente impegnativo di questi tempi...
«E’ vero, ma io ho sempre prodotto spettacoli affollati. E poi serve un po’ di solidarietà...».

Con lei lavorano anche le sue due figlie, Carlotta e Susanna?
«La prima canta, la seconda è costumista e fa un paio di interventi. Le prime volte ero imbarazzato a lavorare con loro, poi mi sono abituato. Stare sul palco è molto più intimo che ritrovarsi in una stanza»

Si può dire che i suoi riferimenti teatrali vanno da Kean a Petrolini?
«La teatralità è bella se contaminata, bisogna andare dalla tragedia greca alla farsa. Al Globe Theatre che dirigo a Roma abbiamo prodotto fior di spettacoli come un Lear interpretato da Ugo Pagliai. E io stesso quale sogno nel cassetto ho quello di interpretare un Riccardo III»

Lei recitò con Carmelo Bene nella “Cena delle beffe”. E’ vero che litigavate spesso?
«Per niente, eravamo grandi amici nella vita, volevamo fare compagnia insieme. A un certo punto lui desiderava fare solo il regista e pensava a me come unico attore.»

Dalla sua sua scuola teatrale sono usciti ottimi attori. Qual è il segreto di un buon maestro?
«Più che insegnare bisogna mettere a disposizione la propria esperienza e trovare un luogo dove poter mettere in pratica quel gioco rischioso che è il teatro. Io ben presto ho capito che lì non mi dovevo esibire ma era necessario lasciare spazio ai ragazzi».

Uno sport nazionale adesso è accusare la tv. Lei che ne dice?
«Non parlo male di nulla in maniera pregiudiziale. Penso che sia necessario rielaborare i palinsesti e introdurre qualche novità perché così com’è la televisione mi pare un po’ stanca. Proprio adesso Raiuno mi ha proposto uno show per fine anno. Ci sto pensando, perché serve un’idea diversa, magari rischiando qualcosa in più»

Come sta il teatro italiano?
«Ha bisogno di una legge-quadro. Il teatro è in crisi da sempre e adesso più che mai. Credo che lo Stato debba intervenire con idee giuste. Le tournée oramai sono massacranti: bisogna creare più centri di produzione anche alla luce del federalismo e lavorare sugli scambi».
Il cinema made in Italy sembra, invece, essersi risvegliato...
«Ci sono buoni registi e buoni attori ma i costi sono quasi inaccessibili e i problemi distributivi restano pesanti. Si può essere ottimisti? Certo, ma non ottimisticamente stupidi».

I critici dicono che lei ogni sera affronta un corpo a corpo con il pubblico. Lo avverte?
«Ogni sera provo uno scambio di affetto e intimità con la gente. E quando alla fine piovono gli applausi non ho vinto io ma hanno vinto tutti quelli che stanno lì, in teatro».
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