il 30 maggio 2006
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Yo la tengo: concerto Yo la tengo all'Estragon di Bologna il 30 Maggio 2006. A Roma il 29 maggio
Yo La Tengo è una delle istituzioni dell'indie rock americano. Nel loro repertorio, il recupero delle ballate dei Velvet Underground si unisce a una peculiare inclinazione psichedelica e a un riciclaggio creativo di stili e suoni, sia dei "classici" sia dei contempo
Il sodalizio artistico-familiare degli Yo La Tengo ha dato vita a una delle saghe più importanti dell'alternative rock americano, non solo per la qualità delle produzioni, ma anche per l'atipica longevità artistica, paragonabile a pochi altri fenomeni del genere. Nonostante i tanti (e forse troppi) dischi pubblicati, gli Yo La Tengo sono sempre riusciti a coniugare l'attitudine sperimentale con una lucidità d'intenti stupefacente, che ha impedito loro di sprofondare in quell'intellettualismo onanista e cervellotico in cui molti esponenti del circuito "indie" sono rimasti intrappolati. La loro psichedelia di matrice tipicamente velvettiana è stata aggiornata negli anni, attraverso un'operazione di riciclaggio creativo di stilemi del passato, ma anche di assorbimento delle tendenze più originali del momento.
La lunga storia degli Yo La Tengo comincia nel 1984 a Hoboken, piccola cittadina del New Jersey (Usa). E' qui che il cantante e critico musicale (per il "New York Rocker") Ira Kaplan e la compagna Georgia Hublay, batterista e cantante anch'essa, decidono di coltivare la loro comune passione per il rock all'interno di una band. Il curioso nome prescelto deriva dalla passione di Kaplan per il baseball: "Yo La Tengo" è infatti l'espressione, in spagnolo, tipica dell'outfielder che grida: "Ho la palla!".
Nel primo album, Ride The Tiger (1986), a dare man forte al duo, provvede anche un
nutrito gruppo di musicisti, dal chitarrista Dave Schramm al bassista e produttore Clint Conley (Mission Of Burma). Il disco si distingue subito per un sound affascinante, molto chitarristico, con variazioni psichedeliche che richiamano soprattutto Television e Feelies. Il talento di Kaplan si esalta nella cavalcata strumentale di "The Evil That Men Do", ma anche nel country-rock sommesso di "The Way Some People Die". La ricerca della trance, altro aspetto tipico della band, emerge soprattutto in ballate acide come "Forest Green" e "The Cone Of Silence". Meno indovinata, invece, la cover di "Big Sky" dei Kinks. Seppur ancora acerbo, l'album mette subito in luce la principale qualità dalla band: l'eclettismo. Il loro sound è intellettuale, ma senza rinunciare alla freschezza primigenia del rock; sa essere rumoroso, ma riesce a conservare sempre una nitida vena melodica; può essere cupo e nevrotico, quando a dominare è il baritono "reediano" di Kaplan, ma anche fragile ed etereo, quando prevale il delicato soprano di Hubley.
New Wave Hot Dogs (1987), oltre a rivelare nella scelta del titolo quell'ironia sardonica tipica della band, ne affina ulteriormente lo stile, accentuando la componente "rock" a scapito di quella "country", ancora tangibile nel disco d'esordio. Domina la chitarra di Kaplan, sulle orme di Neil Young e Tom Verlaine in versione rispettivamente meno nevrotica e meno alienata. La mancanza della seconda chitarra di Schramm, tuttavia, si fa notare, e a tratti si ha la sensazione che il gruppo metta in campo troppe intuizioni senza riuscire ad afferrarle tutte. La vibrante "House Fall Down", l'eterea "Blocks from Groove St." e la cupa cover della reediana "It's Alright (The Way That You Live)" offrono i momenti migliori. Il disco sarà riedito in cd insieme al successivo President Yo La Tengo (1989), anch'esso tanto ricco quanto, a volte, dispersivo, dal folk quieto di "Alyda" al feedback in loop di "Barnaby Hardly Working", dalla cover di "I Threw It All Away" di Bob Dylan fino ai dieci minuti della rumorosa maratona chitarristica di "Evil That Men Do (Pablo's Version)", al crocevia tra Neil Young e i Mission Of Burma, e al thrash furibondo di "Orange Song".
Schramm torna a unirsi alla band per Fakebook (1990), una raccolta di cover (Kinks, Flying Burrito Brothers, John Cale, Cat Stevens, Flamin Groovies, Daniel Johnston etc.) riarrangiate in modo semplice ma suggestivo, con l'aggiunta dell'inedita "Summer".
Pur ricchi di spunti interessanti, questi ultimi lavori avevano ridimensionato gli Yo La Tengo a surrogato anni 80 dei Velvet Underground, relegandoli così a un pubblico di nicchia, nonostante una buona presenza della band nella programmazione del circuito radio dei college.
In coincidenza con l'arrivo in pianta stabile del bassista James McNew (ex-Christmas) e con l'emergere di Hubley come prima voce, ecco allora il salto di qualità nella carriera della band con May I Sing With Me (1992). Kaplan e soci, infatti, prendono coraggio dedicandosi pressoché esclusivamente a una particolare formula di psichedelia chitarristica; l'aggiunta di strumenti elettronici contribuisce a personalizzare e mettere finalmente a fuoco il loro suono, sempre più all'insegna di una "trance rock" sommessa e lucida, priva di quell'alienazione caratteristica della maggior parte delle band del settore. Il suono degli Yo La Tengo continua comunque a oscillare tra noise-rock e melodie pop. Al primo estremo si situa "Mushroom Cloud Of Hiss", tour de force chitarristico marchiato a fuoco da una sequela di dissonanze e di feedback, con la batteria di Hubley a imprimere cadenze sempre più forsennate. Sul fronte melodico, invece, dominano le tenere cantilene di Hubley: "Satellite", "Always Something" e "Swing For Life", ma a lasciare il segno è soprattutto il folk spigliato di "Upside Down". Se il riff hard-rock di "Some Kinda Fatigue" sposa i Velvet Underground con Jason & the Scorchers, il lungo trip lisergico di "Sleeping Pill" asseconda le ambizioni più sperimentali del gruppo. Sono semmai la frenesia e l'iperattivismo di Kaplan a fare danni, compromettendo il suadente appeal di "Five-Cornered Drone (Crispy Duck)" e guastando la tela dei delicati vocalizzi di Hubley in "Detouring America With Horns". May I Sing With Me segna comunque un salto di qualità nella produzione della band, inaugurando la fase più creativa della sua carriera.
A prendere le distanze in modo ancor più netto dalla babele sonora degli esordi è il successivo Painful (1993), che non rinnega del tutto le asperità rumorose alla Sonic Youth, ma le affoga in un clima pacatamente ipnotico, in una psichedelia onirica più che narcotica, dove bisbigli e droni fanno da padrone, relegando sullo sfondo le sferragliate di chitarra. Gli Yo La Tengo si rifugiano in un'oasi sonora che solo occasionalmente s'infiamma. Lontano dall'irruenza garage degli esordi, il loro umore si avvicina a quello dei contemporanei shoegazer. Kaplan e Hubley si alternano al canto in "Big Day Coming" e "Nowhere Near", mantenendo intatta l'atmosfera trasognata: un vortice di suoni, di rumori e di droni amalgamati tra loro fino a formare un unico insieme, che potrebbe continuare a fluttuare all'infinito. La new age non è poi così lontana. "Sudden Organ" è una ballata che non lascia scampo, mentre il riff di "From A Motel 6" è degno dei migliori Sonic Youth. La lunga jam strumentale di "I Heard You Looking", infine, compendia al meglio l'attitudine melodica e l'anima rumorista della band.
Electr-O-Pura (1995) segna però un piccolo passo indietro, smarrendo quella tensione quasi "mistica" che pervadeva Painful. Torna, in particolare, l'altalena tra toni duri e morbidi che nasconde una certa confusione di stili. Hubley è sempre più protagonista: è lei a tenere in piedi brani come "Pablo And Andrea" (un'incantevole brezza alimentata dal soffice finger-picking di Kaplan) e la rumorosa "(Straight Down to the) Bitter End". Il baritono di Kaplan, invece, troneggia in "Tom Courtenay", un'accattivante armonia pop che omaggia il beat inglese degli anni 60, e, con aplomb alla Verlaine, in "Flying Lesson (Hot Chicken #1)". L'animo romantico della band si crogiola nella melodia blues di "My Heart's Reflection" e nell'organo gospel di "Hour Grows Late", mentre il chitarrismo del suo leader si esalta nei riverberi lisergici di "Decora" e nella sarabanda di "Blue Line Swinger", che chiude il disco in un'orgia di tremolii e riverberi, contrappunti e feedback.
Genius + Love = Yo La Tengo (1996) è un doppio cd (metà cantato, metà strumentale) che raccoglie tracce rare e inedite.
Ma la band ha ormai affinato il suo stile ed è pronta a pubblicare il suo definitivo capolavoro: I Can Hear the Heart Beating as One (1997). Oltre a portare a maturazione spunti e stili abbozzati nei lavori precedenti, il disco presenta alcune novità: gli Yo La Tengo si cimentano per la prima volta con sonorità bossa nova ("Center of Gravity"), flirtano con l'elettronica sperimentale dei classici (Can, Kraftwerk) e dei loro contemporanei (Stereolab) nel singolo "Autumn Sweater" e coinvolgono il bassista James McNew al canto ("Stockholm Syndrome"). Ma è tutto il sound della band a risultare più originale ed emozionante. La gamma di soluzioni sonore è sorprendentemente vasta. Ci si può così imbattere nello pseudo-grunge alla Superchunk di "Deeper Into Movies" e nell'assolo di tromba in stile Galaxie 500 dell'incantevole "Shadows", nella litania letargica e finemente jazzata di "Moby Octopad", nei deliziosi droni elettronici e nelle misticheggianti frasi d'organo di "Autumn Sweater". Ma Kaplan sa ancora come avventarsi sull'ascoltatore con la grinta di un hardrocker, come conferma l'energica "Sugarcube". E se "Stockholm Syndrome" è un gioiello di pop acustico che ha il sapore della classicità, lo spleen psichedelico della band torna a balenare tra le dissonanze ipnotiche di "Damage". Brilla per eccentricità persino una cover in chiave boogie/shoegazer della "Little Honda" dei Beach Boys. A rischiare di far affondare il disco, semmai, sono i dieci minuti della strumentale "Spec Bebop", fin troppo pretenziosa e autoindulgente. Ma per fortuna provvede Hubley a chiudere in bellezza l'opera con una candida versione di "My Little Corner of the World", degna di una Nico sopravvissuta al post-rock.
I Can Hear the Heart Beating as One è una sorta di catalogo virtuale degli stili e delle tendenze in voga alla metà del decennio Novanta. Una sintesi preziosa che conferma il talento degli Yo La Tengo come compositori e musicisti. Stupisce come dopo già tanti anni di carriera, la band del New Jersey riesca a sfoggiare una capacità creativa e una lucidità d'intenti ancora maggiore di quella dei loro primi lavori. Merito più della buona sorte comune che nelle doti individuali dei singoli membri, stando a quanto racconta Kaplan: "Siamo stati fortunati a scoprire di essere tre individui uniti, capaci di muoversi in avanti con delle intenzioni comuni".
Proseguendo nell'evoluzione del loro sound verso un rock "a 360 gradi", gli Yo La Tengo
realizzano con And Then Nothing Turned Itself Inside Out (2000) un nuovo florilegio di citazioni da cultori, un nuovo saggio del loro sound "maturo", fatto di atmosfere rilassate, psichedeliche e jazzate. La (insolita) pausa di tre anni che lo ha preceduto è servita al trio per aggiustare il tiro verso un rock ancora più onirico, di cui i 77 minuti del disco sono la summa: "Abbiamo provato molte diverse sequenze dei brani", raccontano, "ma in qualsiasi modo facessimo, non riuscivamo mai a togliere alcun pezzo, ci convincevano veramente tutti". Ormai veterani dell'indie rock a stelle e strisce, profondi conoscitori di tutte le sue pieghe e i suoi anfratti, gli Yo La Tengo abbassano il volume dell'amplificatore e tornano a strizzare l'occhio alle sonorità folkeggianti di Fakebook, ma anche al contemporaneo post-rock. Perfino le reminiscenze dei Velvet Underground finiscono così con l'annegare in un'atmosfera di quiete irreale. L'iniziale "Everyday", ad esempio, avvolge subito l'ascoltatore in questo clima idilliaco, con i bisbigli delle tastiere e le frasi minimali di chitarra appena turbati dagli accenti sinistri del basso. Ed è difficile riuscire a sopravvivere a questa malia crepuscolare incappando nei sussurri languidi di "Saturday", nelle malinconia indolente di "Our Way To Fall" o nella tenera cantilena di "Tears In Your Eyes". Ma non mancano episodi più eccentrici, dalla melodia acida alla Stereolab di "Let's Save Tony Orlando's House" al piglio marziale di "Last Days Of Disco", reminiscente dei Can di "Future Days", fino alla sobria cover di un classico disco-music come "You Can Have It All" di George McRae. Le distorsioni e i feedback del passato più "velvettiano" resistono nella sola "Cherry Chapstick". Il tutto prima che la notte inghiotta il gruppo nei 17 minuti di psichedelia sonnambula di "Night Falls On Hoboken".
L'avventura degli Yo La Tengo prosegue con Summer Sun (2003) nella direzione di una progressiva dilatazione degli spazi e di un'intelligente contaminazione elettronica, anche se forse è venuta a mancare quell'obliqua ispirazione che aveva animato i momenti migliori della band di Hoboken. Gli Yo La Tengo si spingono ora verso raffinate suggestioni jazzistiche e lounge, richiamando alla mente una versione più rarefatta degli Stereolab. Tra fluttuanti strumentali come l'iniziale "Beach Party Tonight" e inattese tentazioni funky, i momenti migliori vengono dalle suggestive aperture melodiche sussurrate da Kaplan, come nelle tenui "Season Of The Shark" e "Tiny Birds" o nelle più incalzanti "Don't Have To Be So Sad" e "Moonrock Mambo". La rilettura di "Take Care" dei Big Star, affidata alla voce sottile di Hubley, condivide lo stesso sorriso dolceamaro che illuminava il capolavoro della band di Alex Chilton, "Third". Il "party sulla spiaggia", insomma, è pur sempre una festa notturna per gli Yo La Tengo, con la sabbia che conserva il ricordo dell'ultimo tepore del sole e l'orizzonte sconfinato del mare a segnare la dimensione dell'animo.
L'Ep Today Is The Day (2003) raccoglie tre brani non inclusi nell'album: "Styles Of The Times", "Outsmarter" e il breve intermezzo strumentale di "Dr Crash". A quasi vent'anni dal loro esordio, gli Yo La Tengo mantengono intatta la loro classe, ma la sensazione è che questi veterani dell'indie-rock siano ormai animati soprattutto dalla voglia di ritoccare con qualche nuova pennellata un quadro fin troppo familiare. Fortunatamente, a tenere alta l'attenzione sulla loro stagione d'oro arriva l'ottima antologia doppia Prisoners Of Love - A Smattering Of Scintillating Senescent Songs 1985-2003, contenente ben 26 brani.
Da www.ondarock.it; Biglietti su www.ticketone.it