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Il rock progressive dei Van Der Graaf Generator arriva al Carisport di Cesena

il 09 aprile 2011

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Cesena Altro

Descrizione dell'Evento

Se c'è un gruppo progressive che merita l'aggettivazione di "esistenziale" questi sono sicuramente i Van Der Graaf Generator e se c'è un gruppo, in tale ambito, che si è salvato, per lo meno nella considerazione critica, dal terremoto punk della fine degli anni settanta questi sono ancora i VDGG. Li potremo vedere al Carisport di Cesena.

Gli psicodrammi della band di Peter Hammill hanno rappresentato alcuni dei vertici dell'intero movimento progressive. Nelle suite del "generatore" non ci sono fiabe, elfi e gnomi, ma l'angoscia del vivere, espressa attraversa un sound lirico ed epico
Troppo bravi, troppo lontani da cascami esibizionistici e da derive virtuosistiche, troppo profondi e drammatici e in fondo troppo proiettati sul futuro per non essere ricordati e stimati anche ai giorni nostri.
L'estetica e la filosofia che sottende la musica dei VDGG, poi, non trascende il reale nel favolistico, come nei Genesis, non lo dissolve nell'indeterminato, come nella grande progettualità musicale dei King Crimson, non lo avviluppa in forme estetizzanti e alla fine rassicuranti, come nel formalismo degli Emerson, Lake and Palmer o degli Yes, bensì lo sviluppa nel simbolismo e nella metafora dello psicodramma, nella forza catartica dell'angoscia del divenire.
Non fiabe, elfi, gnomi, ma l'angoscia del reale in una musica che quasi fin dall'inizio vive il senso del dramma in una chiave che è sì epica, ma al contempo quotidiana e suburbana; in tal senso un gruppo molto avanti sui suoi tempi, esilmente ma inequivocabilmente già proiettato verso il superamento del progressive come determinazione stilistica, spostando invece i criteri del genere in un'ottica di strategia compositiva e di progettualità artistica ed emozionale.
I Van Der Graaf Generator esordiscono discograficamente nel 1969 con Aerosol Grey Machine ed è costituito da Hugh Banton alle tastiere, Keith Ellis al basso, Guy Evans alla batteria, un misterioso Jeff al flauto e da Peter Hammill, autore della totalità dei brani e leader indiscusso, alla chitarra e alla voce.
Il disco è generalmente poco considerato e giudicato di transizione, ma in realtà contiene in sé, in maniera se si vuole incompleta e confusa, già tutti gli elementi degli anni a venire: musica percorsa da una strana tensione sotterranea, tenuta assieme dall'organo di Hugh Banton, antieroe delle tastiere in un'epoca di solisti, e percorsa dai fremiti della vocalità di Hammill, all'esordio ancora timida e flautata; i pezzi però hanno una struttura melodica che se già contiene elementi complessi e una forte tendenza al chiaroscuro, dall'altra appare poco limpida e coinvolgente, con il risultato di musica emotivamente forte ma di forma confusa, indeterminata; spesso i pezzi sono condotti dalla chitarra acustica, che il gruppo successivamente abbandonerà quasi del tutto, dando a volte una nota quasi cantautorale a livello di arrangiamento; comunque il disco contiene due pezzi notevoli: "Afterward" e "The Necromancer".
Passa un anno, esce The least we can do is wave to each other, con un line-up composto da Hammill, Banton, Evans e da David Jackson ai fiati, e sembra che ne siano passati dieci tanto il salto è notevole; il songwriting di Hammill è molto più maturo e strutturato, l'organo di Banton descrive volute armoniche inconfondibili, la voce appare più piena e convincente, guadagnando in personalità e aggressività, poi a far quadrare il cerchio c'è l'acquisizione del sax di Jackson, che con il suo stile lirico e dissonante caratterizzerà il sound del gruppo per gli anni a venire. La prima facciata del vecchio LP, poi, è splendida, con la tensione e la raffinatezza armonica di "Darkness" e "White Hammer" e il crescendo lirico della straordinaria ballata "Refugee", certamente uno dei brani più famosi del gruppo.
Il disco non ha successo di vendita ma non passa inosservato se sua maestà Fripp in persona scomoda la sua chitarra per suonare in un brano del successivo H to he who am the only one, disco compiuto e impeccabile in tutti i suoi 5 brani, tra cui si stagliano la melanconica e pianistica "House with no door", la inquietante, romantica "Lost" e l'aggressiva "Killer". H to he è un disco nel quale prende piena forma e coscienza il sound cupo e drammatico, ma sempre estremamente raffinato e non scevro da efficacissime aperture melodiche, del gruppo.
Alla fine, però, è un disco di transizione, e ci se ne accorge l'anno successivo, il 1972, quando esce Pawn Hearts, considerato giustamente il capolavoro dei VDGG e uno dei dischi cardine del progressive tutto. Difficile descrivere la suite "The Plague Of Lighthouse Keeper", con i suoi saliscendi emotivi, con la teatralità dell'impostazione vocale, con lo splendore delle parti in cui Hammill al piano stempera l'angoscia e la risolve in un romanticismo drammatico e letterario; difficile descrivere la tensione estraniante di un brano che racconta di un mondo altro ma incombente, di una musicalità quasi aliena ma presente, impossibile da ignorare. Tale splendore rischia di far passare in secondo piano gli altri due brani, altri due capolavori, "Man-erg" e "Lemmings".
Dopo Pawn Hearts Hammill scioglie il gruppo per proseguire i suoi progetti solisti, per poi ricompattarlo a sorpresa nel 1975 con Godbluff. Parte qui la seconda fase dell'esperienza dei Van Der Graaf, una fase evolutiva di estremo interesse ma sostanzialmente ignorata e sottovalutata dal pubblico, anche quello legato al genere, e dalla critica.
Godbluff è un disco buono e un po' deludente al contempo. Tra pezzi di retrogusto romantico come "Undercoverman" e l'aggressività urlata di "Sleepwalker", il gruppo sembra non poter ripetere le meraviglie del periodo precedente, comincia però ad affiorare una maggiore urgenza e secchezza negli arrangiamenti con la voce di Hammill che spesso si erge in un urlo disperato.
Meglio farà "Still Life" l'anno successivo. Se l'iniziale "Pilgrim" ci porta indietro di qualche anno, il successivo brano che dà il titolo all'album è qualcosa di terrificante e in qualche modo di inedito e ineguagliato, con un inizio inquietante per voce e organo e con il successivo intervento di tutto l'organico in un brano disperato nel suo dispiegarsi contorto.
Il successivo World Record farà ancora meglio, i pezzi assumono qualcosa di alienante, gli arrangiamenti sono articolati ma anche più schematici rispetto al passato, la tensione esistenziale dei brani rimane altissima tra un potenziale hit come la solenne "Wondering" e il minimalismo che fa capolino nella lunga e complessa "Meurglis III". L'involucro rimane legato al rock progressivo, ma sottotraccia si erge un'estetica diversa, più ruvida e meno consolatoria.
World Record è il disco migliore della seconda fase del gruppo, se non altro per la presenza degli oltre 20 minuti della già citata "Meurglis III", in assoluto una delle migliori composizioni di Hammill, brano articolato, fortemente pittorico e teatrale, e per il livello quasi perfetto di interplay strumentale, in particolare tra l'organo di Banton e il sax di Jackson.
L'anno successivo esce "The quiet zone/the pleasure dome" con il violino di Graham Smith che sostituisce il sax di Jackson. Siamo sempre su livelli ottimi e l'introduzione del violino accentua ancor più gli aspetti lirici e melodrammatici della musica interagendo alla perfezione con la voce di Hammill. Il disco, comunque, contiene alcuni brani deboli e non è al livello dei precedenti.
Forse Hammill è conscio che il generatore sta esaurendo la sua carica e nel 1978 il gruppo conclude definitivamente la sua parabola, ma prima esce un live, Vital; in copertina i musicisti sono statuine inanimate e ciò introduce un disco che è la logica conclusione della parabola musicale dei VDGG e in qualche modo la sua sintesi estrema: un disco di una tensione insostenibile, quasi brutale, cattiva e disperata, suonato in maniera aspra e ruvida, spesso guidato da secchi accordi di chitarra elettrica e dalla vocalità del leader, sempre più drammatica e teatrale, ma al contempo lontanissimo da derive rumoristiche e cacofoniche e da ingenui spontaneismi; a suo modo un disco molto più vicino a una certa new wave che al progressive e che rappresenta il precipitato emotivo di ciò che il gruppo è sempre stato e che ha convogliato di volta in volta in forme espressive diverse.
Con Vital si conclude la storia del gruppo, proseguirà Hammill da solista con risultati alterni ma sempre onesti, un gruppo estraneo alle facili trappole del manierismo e influente anche al di là dei confini, per quanto vasti e labili, del progressive.
A sorpresa, 27 anni dopo, il gruppo si ricostituisce e pubblica l'album Present: 2 cd, uno breve (38') di canzoni e uno lungo (più di un'ora) di improvvisazioni in studio. Parte "Every Bloody Emperor" e già è un tuffo al cuore, pochi accordi di liquido piano elettrico e un sax dall'aria conosciuta e quando parte il vocione di Hammill hai già le antenne dritte. Poi un flauto accompagna la voce, Hammill sbuffa nel microfono, il pezzo sale di tono e tu cominci a sorridere. Melodia orecchiabile, entra l'organo, prova un giro che si infrange contro un solo di sax a stento tenuto in carreggiata, ripresa del tema iniziale e tanti saluti a casa. Bello. Molto bello. "Boleas Panic", scritta da Jackson, è uno strumentale a tratti lancinante, tutto giocato tra un bel tema di sax e un organo che spinge e si contorce nelle retrovie. Un gorgo magmatico e ribollente. Un urlo senza liriche. I nuovi VDGG scelgono la presa diretta e sembra di assistere a un live in studio. "Nutter Alert" è il secondo brano orecchiabile del lotto, percorso da un Hammill declamante come non mai, con un sax che imperversa tra ordine ed epilessia.
Poi "Abandon Ship" e "In Babelsberg", febbrili e frementi, partono da dove era finiti i VDGG negli anni 70, con "Vital", dal furore istintuale, aspro, tagliente, abrasivo di quel loro epilogo momentaneo, partono da dove il progressive si era arenato come una balena bianca, luccicante ma inerte, partono da traiettorie mutevoli e irregolari che l'Hammill solista ha toccato senza però penetrarvi appieno, partono dal presupposto che un gruppo di ultracinquantenni può anche suonare come una indie-band, tangenti all'intensità del caos senza sposarne mai la scorciatoia creativa. Chiude il primo cd "On The Beach", con Hammill malinconico al piano accompagnato da un Jackson in vena di cool jazz.
Dopo 37' e 34" ascoltati svariate volte, la sensazione di stare ascoltando un bel ritorno a casa è molto forte. Dopo aver ascoltato il secondo cd, ti accorgi che gli ospiti stanno ripartendo. Improvvisazioni. Un gruppo progressive che pubblica un'ora di improvvisazioni. Dei gruppi storici solo i King Crimson hanno dimostrato finora di aver avuto dimestichezza con il genere. Tutti i brani nascono da intuizioni musicali e atmosferiche che si avviluppano, si sgretolano per poi ricomporsi, in un incessante lavorio di fatica creativa posta nell'immediatezza del rapporto con lo strumento. Suono rock e vandergraffiano, addirittura un paio di brani, come ad esempio "Crux", sembrano abbozzi strumentali di canzoni in divenire e forse lo sono.
And then there were three. Da tempo David Jackson ha litigato con Peter Hammill e ha lasciato il gruppo, che per tutta risposta ha messo in cantiere un nuovo disco in studio. In tre. Di nome Trisector (2008).
L'iniziale "The Hurlyburly" è uno strumentale piacevole ma inconcludente con Hammill che fa quel che può con il riff alla chitarra, l'organo che apre nelle retrovie ed Evans che cementa il tutto. Più interessante "Interference Patterns", primo brano cantato, minimalismo tastieristico, momenti paranoidei e fin troppo contorti di cui è disseminata la discografia del gruppo e dell'Hammill solista.
"The Final Reel" introduce un leit-motif del disco, un romanticismo esistenzialista in sé oscuro, ma non scevro di una dolcezza quasi tranquillizzante che farà capolino diverse volte nell'ascolto. Introduzione al piano, brano in crescendo, non irresistibile la linea melodica, organo old fashioned come non mai che tiene in piedi il tutto, Evans che spatola nelle retrovie. La successiva "Lifetime" è sulla stessa falsariga, direi quasi romantica, niente di irraggiungibile, ma un'atmosfera notturna e tenue, appena screziata da ombre.
"Drop Dead" sembra la versione cantata di "The Hurlyburly", inconsistente se non per un discreto tiro. Molto meglio allora "Only A Whisper", con il suo svanire apparentemente senza fine. "All That Before" sfodera una muscolarità esuberante, appena smussata da un bel lavoro di Banton all'organo.
Ed ecco che arriviamo al cuore, il brano più atteso, la mini-suite (12' 26") "Over The Hill", brano contorto, a struttura circolare, ipersaturo di musica e patos. Il disco si chiude con "(We Are) Not Here", trascurabile, se non per il fatto che riprende nel giro di tastiere e nel cantato slabbrato un'estetica new wave.
Rispetto al disco precedente, migliore produzione, migliore registrazione, migliore anche l'esecuzione, appare pure in qualche modo un album più completo, definito. L'assenza di Jackson francamente si avverte poco, si è ben giocato sugli arrangiamente e Banton all'organo ha fatto un bel lavoro, per quanto old fashioned, tanto che il suono dell'organo ricorda addirittura un periodo proto-progressive.

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