Tuxdomoon in concerto a Forlì
il 16 novembre 2007
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E non perchè fossero portavoce di una ricetta musicale "popolare", quanto, piuttosto, perchè contrassegnati da una maggiore "visibilità ", dovuta soprattutto ai loro famosi spettacoli, in cui mescolavano cabaret espressionista, romanticismo di chiara ascendenza "mitteleuropea" e brandelli di futurismo umanoide. Con loro, le forme della musica classica vennero piegate a raccogliere gli scempi psicologici dell'evo industriale, coniando un genere fortemente caratterizzato ed innovativo.
Blaine L. Reininger (tastiere e violino) e Steve Brown (tastiere e strumenti assortiti), due studenti di musica elettronica al San Francisco City College, fondarono i Tuxedomoon nel 1977. Nel primissimo periodo, vennero coadiuvati saltuariamente da alcuni esponenti della scena teatrale locale, come Victoria Lowe, Gregory Cruikshank e il mimo-cantante Winston Tong.
Dopo il primo singolo, uscito nel 1978, (con l'esperimento pop di "Joe Boy" e la nevrosi funk di "Pinheads On The Moon"), ecco la volta dell'Ep No Tears, che fonde frammenti di musica classica, ritmi sintetici e un canto, quello di Tong, che declina terribili quanto astratti paesaggi decadenti.
Intanto, i loro concerti assomigliavano sempre più a dei veri e propri spettacoli multimediali. In una intervista al "New Musical Express", Reininger affermò di aver conosciuto gente che era letteralmente terrorizzata dai loro show.
La cosa non poteva che essere vera, dato che alcuni dei loro brani erano costruiti utilizzando il cosiddetto "tritono", un intervallo di quarta eccedente bandito nella Chiesa del Medioevo perchè ritenuto essere "la musica del Diavolo". Tuttavia, la band se ne serviva esclusivamente per ottenere nel pubblico un effetto catartico e liberatorio.
Non c'era, però, soltanto questa passione per le "zone d'ombra" della musica del passato a segnare profondamente la sintesi musicale della band. Altre influenze fondamentali furono, infatti, William Burroughs, John Cage, Albert Camus, Giorgio Moroder, David Bowie e Brian Eno.
Nel frattempo, si erano uniti alla band il chitarrista Michael Belfer (già negli Sleepers) e il batterista Paul Zahl (in seguito con SVT e Flamin' Groovies). Belfer abbandonò poco dopo, mentre Peter Principle (polistrumentista e grande appassionato di musica d'avanguardia) fu reclutato come membro effettivo.
L'Ep successivo, Scream With a View (1979), é un lavoro glaciale, cupo, in cui la componente esistenziale del sound viene filtrata da una tensione immateriale. "Nervous Guy" srotola una ritmica sintetica in cui si aggirano gli accordi ripetitivi della chitarra, la voce trattata elettronicamente, i volteggi del sintetizzatore e le spirali del moog. Sulla stessa falsariga si situa "Where Intersts Lie", una litania funebre ferita dai fraseggi depressi del synth. La sperimentazione diventa voce dell'inconscio su "(Special Treatment For The) Family Man", forse il loro primo grande capolavoro. Le onde asettiche del moog riproducono scenari marcescenti, vallate a perdita d'occhio che sconfinano in una solitaria "terra di nessuno"; la triste declamazione del sax accompagna l'ascoltatore verso il silenzio tenebroso delle proprie paure. In conclusione, il balbettio di "Midnite Stroll", con bollicine di synth e un sax sotterraneo.
La popolarità della band cresceva, nel frattempo, soprattutto in Europa, dove divenne oltremodo famosa con la pubblicazione del 33 giri Half-Mute, uscito nel 1980. Lavoro seminale e, a tratti, genialoide, Half-Mute rappresenta il classico Tuxedomoon-sound, oltre che uno dei dischi più importanti dell'intera new wave. E' un lavoro che si avvicina più a certa avanguardia che al rock in senso classico, e lo fa in un modo davvero caratteristico e tutt'altro che superficiale.
Lo splendido tema di "Nazca" chiarisce subito gli intenti: la musica si é fatta ancora più cupa e introspettiva, e il sax dissonante di Brown ripete le sue oscure peregrinazioni in mezzo ad onde gravitazionali di synth.
L'algida ritmica di "59 to 1", infiorettata dal basso legnoso di Principle, prepara il terreno per il minaccioso soundscape di "Fifth Column", mentre "Tritone (Musica Diablo)" (vedi sopra) scivola tra contrappunti di tastiere ed uno spericolato delirio di violino. A seguire la paranoia metallica di "Loneliness", le campane e i rumori elettronici di "James Whale" (un omaggio al regista di "Frankenstein") e il techno-pop epico di "What Use?". "Volo Vivace", invece, riporta in auge il gusto per le inflessioni classiche, innestate, in questo caso, su di un tessuto rock, mentre "7 Years" scorre via tra lamenti di synth e accenti di violino.
Ancora un sax straziante si destreggia, in "KM", tra rumorismi assortiti e un basso abulico, prima che "Seeding The Clouds" lasci che la declamazione di Brown suggelli il tutto in un clima apparentemente disteso.
Il tour successivo li vide fare tappa in Europa, dove ottennero riscontri davvero eccellenti. Sorpresi da tanto clamore, i Tuxedomoon decisero di trasferirsi proprio nel vecchio continente, installando il loro quartier generale ad Amsterdam, in Olanda. Dopo sei mesi, eccoli giungere a Bruxelles, dove trascorsero un periodo molto prolifico, come conferma la grande mole di materiale registrato in studio.
Nel frattempo, era stato pubblicato il loro secondo album ufficiale, Desire (1981). Non siamo sui livelli del lavoro precedente, eppure anche tra questi brani il connubio tra elettronica colta, post-punk decadente e accenni pop raggiunge risultati davvero interessanti, come nel caso di "Jinx", di "Incubus (Blue Suite)" o di "Again". In questi psicodrammi, ora solenni ora disperati, é la voce del ritrovato Tong a conferire all'insieme un surplus di emotività e di visionarietà . L'innodia bizzarra di "Victims Of The Dance" é l'altro momento da ricordare di un disco, tutto sommato, apprezzabilissimo.
In Belgio, dopo essere venuti in contatto con la scena locale, vengono incaricati di comporre la colonna sonora per un balletto di Maurice Bejart. Il risultato é Divine (1982), che si riallaccia direttamente a quanto proposto su Half-Mute, ma senza, per questo, rivitalizzare quella formula. Risultati migliori si avranno sulla Suite En Sous-Sol, dello stesso anno. La sintesi eclettica e sopraffina degli esordi viene qui stravolta da ulteriori "microsintesi", che inglobano e digeriscono meccanicamente musica da camera, psichedelia, musica popolare, disco-music, musica araba e tracce di funk. Il raga di "L'Etranger", la poltiglia funk con violino arabeggiante di "Courante Marocaine", l'espressionismo dilatato di "Allemande Blu" e la psichedelia sghemba e amorfa di "Sarabande En Bas De L'Escalier" costituiscono i momenti migliori di un'opera davvero riuscita.
L'Ep Time To Lose mantiene alte le quotazioni della band, ma il vero successo di pubblico arriverà con Holy Wars (1985), un disco irrisolto e senz'anima. I successivi Ship Of Fools (1986) e You (1987) faranno anche peggio, districandosi malvolentieri tra accenti classicheggianti e derive disco-music.
A questo punto, l'attività dei Tuxedomoon si interrompe. Brown, Reininger e Principle si dedicano a tempo pieno alle loro rispettive carriere soliste, ottenendo, ognuno per proprio conto, risultati alterni.
Solo nel 1991 vi sarà una reunion, in occasione dell'album Ghost Sonata. La musica é tutt'altro che originale, ma basta per riaccendere l'interesse attorno alla band.
Un'altra delusione si avrà nel 1998, con Joeboy In Mexico.
Nel 2000 i Tuxedomoon, dopo l'ennesima reunion, hanno intrapreso un tour in Europa. L'idea era venuta a Dj Hell, che ha poi curato i remix di What Use (2002) e di No Tears (2003).
Nel 2005 i Tuxedomoon tornano con Cabin In The Sky. Formazione originale con Steven Brown, Blaine Reininger e Peter Principle con in più due vecchie conoscenze come Luc Van Lieshout e Bruce Geduldig, collaborazioni, tra gli altri, di Tarwater e John McEntire. Tredici brani.
"A Home Away" parte con un giro di basso fin troppo tipico del gruppo, poi la voce viaggia cadenzata tra il volteggiare del sax. I Tuxedo sono tornati a casa. "Baron Brown" é un pezzo sulla stessa lunghezza d'onda, ma più articolato, con belle aperture di clarinetto e violino, piuttosto orecchiabile per quanto questo termine possa applicarsi ai gruppo. Sembrano aver abbandonato la musica da camera dell'ultimo periodo, al momento discreti pezzi, ma latita un po' l'emozione. Colpo di coda con "Annuncialto", 5 minuti strumentali con un pianoforte liquido alla Harold Budd che galleggia indolente in uno stagno di rumori elettronici, ancorato al suolo da un ineluttabile giro di basso, con malinconiche aperture di clarinetto e di fisarmonica (probabilmente una tastiera settata).
Non facciamo in tempo a dire "bello" che parte "Diario di un egoista", base campionata e melodia inconsistente, in un brano di una bruttezza imbarazzante, e non solo per il ridicolo cantato di Reininger. Proseguiamo con la toccante "La più bella", che gode di una reprise successiva. Nello strumentale "Cagli Five-O" si prova la strada di uno space-jazz atmosferico senza infamia, ma anche poco memorabile. Nella successiva "Here 'Till X-Mas" collabora DJ Hell, ma é un brano inutile, cantato in tono da cabaret e distrutto dalla solita ritmica sintetica. Poi "Chinese Mike", strumentale in stile nu-jazz, con un bel finale con inedita chitarra acustica che accompagna un meditabondo sax, ci risolleva, come del resto "La Più Bella (Reprise)", che viene subito dopo. "The Island" é praticamente un'introduzione ambientale a "Misty Blue", con Steven Brown che canta quasi da crooner in un brano magari non intensissimo, ma molto piacevole nel suo disimpegno. Sul finale "Luther Blisset", con John McEntire al mix (sigh!), é un pasticcio danzereccio indegno, appena appena salvato da ricercati inserti strumentali. Chiude una ripresa di "Annuncialto".
Che dire? Alti e bassi. Indubbiamente riuscito il tentativo di fare un disco in cui risaltassero elementi nuovi nel contesto formale tipico del gruppo, e non mancano pezzi anche riusciti, inoltre il sound appare tutt'altro che sorpassato, in tal senso i Tuxedomoon sono da considerare un gruppo invecchiato bene. Ma non si può fare a meno di rilevare alcuni brani scadenti e altri salvati dal mestiere più che dall'ispirazione. In mezzo, pochi acuti. Alti e bassi, appunto.