il 29 gennaio 2007
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lunedì 29 gennaio
Processo a Dio
di Stefano Massini
con Ottavia Piccolo
Ci sono idee - frammenti di luce, indizi di storie - che incontri una volta e non ti lasciano più. Erano anni che tenevo chiusa in qualche cassetto della mente la traccia di un Processo a Dio all'indomani della Shoah. Immaginavo quel processo come una resa dei conti: violenta, acuta, drastica. Sicuramente un appuntamento non più rimandabile, un guardarsi negli occhi fra terra e cielo. Tutto questo stava in quel cassetto, insieme a squarci di azione, atmosfere abbozzate, profili delineati come uno schizzo al carboncino. Ed ogni volta che, per caso, quel cassetto si apriva, puntualmente mi assaliva la voglia di tentare una forma scritta, traducendo finalmente in dialogo quella scommessa così estrema, per me fascinosa, densa, intrigante. Devo a Sergio Fantoni la riapertura definitiva del cassetto, lo stimolo fortissimo a dar vita teatrale a quegli schizzi provvisori. Ho lavorato su Processo a Dio come forse si lavora ad una statua: ho sgrossato il blocco di marmo per poi scendere sempre più nel dettaglio. Ed era come se il testo esistesse già, laggiù, in fondo al blocco. Lo stavo scoprendo, come svelandolo: un passo dopo l'altro mi si rivelavano i tratti dei personaggi, i nodi della vicenda, le dinamiche della trama, il disegno del dialogo. Sono stato spettatore di ciò che scrivevo e scrittore di ciò che vedevo scorrermi davanti agli occhi. Giorno dopo giorno ha preso vita sulla carta la febbre di Elga Firsch, attrice ebrea di Francoforte che a tutti i costi vuole Dio alla sbarra. E ancora - giorno dopo giorno - le si sono affiancati il rabbino Nachman difensore di Dio, il giovane Adek smanioso di vendetta, lo Scharführer Reinhard relitto del Reich e i due anziani Solomon e Mordechai, giudici severi di un processo che non può non farsi gara dura, senza esclusione di colpi, combattuta con l'istinto feroce dei sopravvissuti, di chi - marchiato dal lager - brucia per la rabbia di un massacro tanto barbaro quanto assurdo, indecifrabile, insensato. Perché in fondo la parola chiave di questo testo non è il dolore dell'Olocausto, bensì il non-senso: quella nebbia fitta che avvolge il presente, quella insignificante banalità che muove la storia con il tragico sconcerto di chi ne è vittima. Se l'uomo è un burattino, chi lo muove? E quale logica segue il teatrino del mondo? Sono queste le domande che, come un magma, muovono il testo dal suo interno. Elga Firsch accusa Dio con la voce, in fondo, dell'umanità intera: l'umanità di ogni epoca e bandiera. E vale forse, come esempio, una battuta del rabbino Nachman: ?il processo a Dio non lo facciamo noi: non si è mai chiuso. Da cinquemila anni?. (Stefano Massini)
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