Il tour 2011 di PJ Harvey passa da Ferrara
il 06 luglio 2011
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PJ Harvey: ha fatto scandalo con i suoi atteggiamenti provocatori e i suoi testi a luci rosse. Ma adesso PJ Harvey è una cantautrice matura. Storia di una ragazza di campagna sulle orme dei poeti maledetti del rock
Ai suoi esordi, quando venne generosamente ribattezzata "la nuova Patti Smith", Polly Jean da Yeovil (Inghilterra) replicò con buona dose di sfrontatezza: "Patti chi?". All'epoca, in effetti, gli echi della poetessa del rock risuonavano prepotenti nell'opera di PJ Harvey. Specie nel timbro della voce, scuro, intenso, piegato dalla violenza viscerale delle emozioni. Uno stile forgiato dalla storia del rock e del blues, ma con un'impronta personale altrettanto marcata.
Per sfondare, PJ ha avuto bisogno di effetti speciali. Non tanto sulla musica, quanto sul look. Rossetti scarlatti, mascheroni da dark lady, tute mozzafiato, gonne in finta pelle di leopardo e boa di piume l'hanno accompagnata a lungo nei suoi teatrali concerti, consacrandola femme fatale del rock d'oltremanica. "Era solo una maschera per me - ha spiegato - Mi serviva a esorcizzare un momento molto difficile della mia vita. Ma era tutto falso, costruito. Adesso sono cambiata e sul palco mi sento me stessa, come quando vado a fare la spesa".
Più ancora del look e delle pose provocanti, daranno scandalo i suoi testi: una miscela di slogan femministi, angosce religiose e storie a luci rosse, all'insegna di un'ossessiva ambiguità. Qualche assaggio, tanto per iniziare: "Ho giaciuto con il diavolo/ ho maledetto il buon Dio/ rinunciato al Paradiso/ per portarti il mio amore" (da "To Bring You My Love", il suo grande successo del 1995); oppure l'ode alla perdita della verginità di "Happy And Bleeding" (1992); e ancora "Angelene", la storia di una prostituta contenuta in Is This Desire? del 1999: "Amore per denaro è il mio peccato/ Ogni uomo che chiama lo lascio entrare/ Rosa e bianco sono i miei colori/ Ho una bella bocca e occhi verdi". Un repertorio da cantautrice "dannata" che si rifà ai canoni di Tom Waits e, soprattutto, a Nick Cave, vero "alter ego" maschile della Harvey. Questa volta PJ non può negare: "La prima volta che ho ascoltato un suo disco avevo diciotto anni. Sono rimasta sconvolta dalle sue canzoni e non ho ascoltato altro per molto tempo. La sua musica aveva toccato alcune parti di me in modo così forte... In seguito, sono rimasta scioccata nell'apprendere che era un eroinomane". Superato lo shock, sono arrivati l'incontro tra i due, consacrato nel magico duetto di "Henry Lee" (nell'album di Nick Cave "Murder Ballads"), e una fugace quanto distruttiva relazione (tutte le figure femminili presentate in “The Boatman’s Call” sono riferite a lei).
Quella di Polly Jean sembra quasi una storia "di scuola" per una rockstar in erba: una ragazzina magra e nervosa, vagamente disadattata, figlia di genitori libertini, tanto aperti di vedute verso il mondo quanto distratti nell'educazione familiare. In più, aggiungiamo la cornice "oscurantista" del Dorset, profonda campagna inglese, poco incline alle stravaganze. "Ero una ragazzina inquieta e scorbutica che passava molto tempo da sola, a dipingere, costruire oggetti e giocare con gli animali", racconterà la stessa Polly Jean. Ed è la cultura hippy dei genitori, membri del movimento "Flower Power", ad avvicinarla alla musica. Comincia suonando il sassofono in gruppi sperimentali come Bologna e Automatic Dlamini, nel quale incontrerà John Parish, poi suo grande partner artistico. Infine sceglie la chitarra e nel 1991 forma un trio con il bassista Steve Vaughn e il batterista Robert Ellis.
PJ Harvey nel 1992 Harvey pubblica il suo primo album solista, Dry, diviso tra scabrose ballate stile "riot-grrrrl" e confessioni intimiste. La protagonista delle sue canzoni è una ragazza disinibita e sessuomane al limite della ninfomania. Il trucco è quello di colpire l'ascoltatore fin nelle viscere, subissandolo di profferte oscene e di sferragliate di chitarra di urla e di lusinghe, di violenza e di estasi stordendolo con un cocktail sonoro tanto ruvido e depravato quanto, in definitiva, studiato.
Nella traccia iniziale, "Oh My Lover", allora, la provocazione è apertamente "bisex": Polly Jean, piuttosto che rinunciare al suo amante, gli propone di amare lei e la sua rivale allo stesso tempo (e, dietro pose finto-femministe mira quindi apertamente ad accattivarsi il pubblico maschile...). Nel tour de force di "Sheela-Na-Gig", la ferocia dei suoni fa da cornice al ritratto irridente della dea della feritilità della cultura celtica, nella conclusiva "Water" è una sensualità dolente a farsi strada. Supportata dal bassista Stephen Vaughan e dal batterista Robert Ellis, Harvey si propone nei panni di una chanteuse torbida e rabbiosa che sfoga nei suoi soliloqui sessuali tutte le sue insicurezze. Il disco figurerà nella lista degli "imperdibili" per diverse testate specializzate.
Il secondo album, Rid Of Me, prodotto da Steve Albini, cambia rotta spingendosi su sentieri hard-rock e grunge. L'esito non è sempre pienamente convincente, specie quando l'ingenuo fervore di Dry (il cui ritornello "Mi lasci asciutta" è chiaramente da intendersi in termini sessuali) si disperde nell'eccesso di foga degli arrangiamenti. Emerge quantomeno lo humour di Harvey, capace di slogan sardonici, alcuni autenticamente provocatori ("Rub 'Til It Bleeds"), altri francamente improbabili ("Douse hair with gasoline"). Non è granchè d'aiuto anche il canto di Harvey, che si sgola e mugola come un ossessa, tra lamenti, sussusurri e ululati distorti, restando però anni luce lontana dall'epos "mistico" della sua musa Patti Smith. E anche la cover della dylaniana "Highway 61 Revisited" - i cui risvolti "biblici" su amore e orrore sembrano quasi preludere agli argomenti affrontati da Harvey nel suo terzo disco si rivela un buco nell'acqua. Ma quella di "Rid Of Me" è una rabbia capace di colpire dritto al cuore. E l'inno della title track mostra finalmente una cantautrice matura capace di scandagliare gli abissi della disperazione con la grinta di una blues-girl di razza. Poco dopo la pubblicazione di Rid Of Me , esce una sorta di seconda versione de-albinizzata dell'album, 4-Track Demos che include alcune tracce inedite.
La definitiva consacrazione per la cantautrice del Dorset arriva nel 1995 con To Bring You My Love, prodotto da Harvey, Flood e John Parish, in cui PJ, oltre alla chitarra, suona vibrafono, percussioni e tutte le tastiere. E' un grande successo, trascinato dalla sinistra cantilena di "Down By The Water", destinata a diventare la sua canzone piu' famosa. L'impronta di Nick Cave è profonda nella sceneggiata blues-rock acustica di "C'Mon Billy" e nel delirio psicotico di "Meet Ze Monsta". Tutto l'album è una sorta di sabba, un rituale morboso in cui Polly si abbandona senza ritegno ai suoi demoni sessuali per poi esorcizzarli. Nel frattempo la sua voce si è affinata, riesce a viaggiare su due o tre timbri diversi, a essere insieme grezza e morbida. "Ho cominciato a prendere lezioni di canto nel 1991 - ha spiegato -. La mia insegnante del Royal College di Londra ha provato a impostare la mia voce in modo classico senza preoccuparsi del mio mestiere di rocker. Ho imparato molto cantando pezzi classici, mi ha aperto la mente".
PJ Harvey insomma non si ferma più, spinta dai suoi sogni ("sono cosi' intensi che non riesco a distinguerli dalla realta'") e da un'attrazione fatale per tutto ciò che è travagliato e conturbante, compresi "gli uomini con grandi problemi". Le metamorfosi e le sceneggiate alla David Bowie diventano più rare. Ma nei suoi concerti continua a brillare un istrionico talento per la danza e la mimica. Una fama crescente l'accompagna, trasformandola nell'icona di una generazione "alternative" che si nutre di fumetti pulp e di decadenza metropolitana (post) grunge. Un successo consacrato nel 1999 con Is This Desire?, classico "album della maturità" in bilico tra ballate noir, rock e techno, come il trascinante singolo "A Perfect Day Elise", che le vale anche un posticino nel palcoscenico mainstream di Mtv.
Ma a dare nerbo al disco sono anche tracce come "The Sky Lit Up”, "The River" (dedicata, così come la b-side "Memphis" all'amico scomparso Jeff Buckley) e la stessa dolente title track, biascicata in un registro tremolante carico d'intensità. Affascinata da certi risvolti più "grezzi" e cupi della techno, Harvey accentua il ruolo dei synth, rendendoli finanche funerei, come nella ballata di "The Garden", che potrebbe tranquillamente essere considerata un pezzo "dark".
Is This Desire? segna il vertice del lirismo cupo della cantautrice inglese e la tappa più avanzata della sua maturazione musicale. Smussate le asperità e affinata la verbosità degli esordi, Polly Jean si presenta nei panni di una cantautrice finalmente poliedrica e completa.
PJ Harvey suona come una conferma, seppur parziale, anche il successivo e discusso (la critica lo acclama, molti fan rimangono dubbiosi) Stories From The City, Stories From The Sea, dodici canzoni che affrontano il tema del contrasto tra la frenetica New York e il placido Dorset e che riportano PJ in una dimensione più solare, da songwriter "classica". "Il titolo si riferisce a posti fisici, ma anche mentali, nella mia testa - racconta -. Nel 1999 sono stata sei mesi a New York. Non ero familiare con il posto e mi sono scontrata con una realtà nuova, che ha innescato un processo di apprendimento. E' uno dei centri del mondo, un punto d'incontro tra gente, culture, edifici, opere d'arte... C'è una massa di energia che si trasforma artisticamente in sogno. E' molto diversa da Londra. New York è molto più terrena, la gente si lascia coinvolgere di più. Londra è più riservata e distaccata". Ne è nato un disco molto più semplice e diretto dei precedenti. Un disco fatto di canzoni sobrie, di ballate e di storie, come "This Mess We're In" (in duetto con Thom Yorke) e "Good Fortune", tanto vibrante da sembrare quasi cantata da Patti Smith in persona. "Sono canzoni autonome - spiega - piccoli film con un inizio e una fine. Volevo tornare alle radici del songwriting, creando canzoni che fossero in grado di camminare da sole".
Quello che emerge chiaramente in questo disco è che Polly Jean è innamorata e forse per la prima volta si tratta di un amore vissuto in maniera positiva che le fa gettare la sua sfortuna dalla cima di un grattacielo e la fa ballare in tondo (“Good Fortune”), che le fa rincorrere il suo amante, rigorosamente nudo, per tutta la casa (“This Is Love”), che le fa costruire un nido e continuare a cantare (“A Place Called Home”).
Ma New York non porta solo un elettrizzante leggerezza, ne è la prova l'iniziale "Big Exit", ispirata dall'ossessione degli americani per le armi da fuoco. "Rappresenta l'altra faccia della vita della città, che non è solo creatività. Era incredibile sentire le notizie di sparatorie e morti ogni giorno. Nelle prime settimane in cui ero a New York, c'era un folle che spingeva la gente sotto i treni della metropolitana. Ha ucciso sei persone in due settimane, era spaventoso. Poi sono tornata nella campagna inglese, e quella canzone è diventata un modo per confrontarsi con la paura, come buona parte dell'album".
E in tutto questo non poteva comunque non emergere il lato oscuro di Polly Jean. L’album si chiude con “We Float”, uno dei picchi nel disco, brano cupo ed oppressivo che spiega quanto “tenere il sorriso che tiene una modella” non sia abbastanza per mascherare la totale mancanza di comunicazione all’interno di una coppia in crisi.
Finito il tempo delle canzoni-shock, frenata la libido irruenta degli esordi, è giunto il tempo della riflessione per questa esile riot-girl di campagna, cresciuta tra vacche, galline e riunioni hippi intorno al fuoco. Oggi vive in un piccolo centro sulla costa inglese, circondata da verdi colline. Frequenta solo un ristretto gruppo di amici. Dice di Londra che è troppo "frantic", frenetica.
Nella vita di questa esile chanteuse dalla pelle bianchissima e dai capelli corvini, tuttavia, non esiste solo il rock. E' appassionata d'arte ("a Londra - dice - passo quasi tutto il tempo nelle gallerie") e si cimenta con la scultura: "E' il mio hobby fin dai tempi dell’università. Vado a raccogliere materiali sulla spiaggia e poi li utilizzo per costruire qualcosa; è solo un gioco, niente di concreto". L'amore per l'arte figurativa lascia tracce anche nelle sue canzoni: "Il mio metodo di scrittura è fortemente influenzato dalle immagini. Mi immedesimo in un ruolo o in una situazione, come in un film, e poi li metto in musica. Certe volte mi ispiro anche alle foto che scatto". Il suo debito con il cinema PJ Harvey l'ha già saldato con una breve apparizione nel corto di Sarah Miles "A Bunny's Tale", e con l'interpretazione (a dir poco deludente) di Maria Maddalena nel film "The Book Of Life", di Hal Hartley, regista che aveva già utilizzato alcuni suo brani nel film “Amateur” e che dirigerà il videoclip per “Crawl Home” delle Desert Sessions in cui PJ è ospite. Nella pellicola, versione moderna della storia di Cristo, Maddalena è la compagna e la guardia del corpo di Gesù. "E' stata un'esperienza straordinaria - racconta - e mi ha aiutato a trovare nuovi stimoli per le canzoni; dopo le riprese avevo sempre qualcosa da scrivere e da trasformare in musica. Ora mi piacerebbe comporre una colonna sonora per un film". Fino a qualche anno fa, sarebbe stato un film porno; ora potrebbe essere anche un noir di David Lynch.
Nel frattempo, oltre alla collaborazione con Nick Cave, ha lavorato con Tricky (nel brano “Broken Homes” contenuta nell’album “Angel With Dirty Faces” e nel quale Tricky omaggia la cantautrice utilizzando alcuni versi di “Oh My Lover” nel brano “Anti Histamine”), Giant Sand (nell'album "Cover Magazine") Pascal Comelade, Marianne Faithfull (cinque delle dieci canzoni contenute nell'album "Before The Poison" portano la firma di PJ Harvey) e con John Parish per il progetto sperimentale Dance Hall at Louse Point (1996). Quest'ultimo rivela Harvey nei panni della blues-girl di razza ("Rope Bridge Crossing", la cover di "Is That All There Is?"), di vestale lugubre alla Diamanda Galas ("Taut"), ma anche di feroce rockeuse ("City Of No Sun", "Urn With Dead Flowers”), mentre l'acustica "That Was My Veil", primo singolo estratto, e la struggente "Civil War Correspondent" confermano principalmente che PJ ha un'anima.
Siamo nel 2004 quando PJ Harvey torna all'antico con Uh Huh Her, un disco di crudo folk-blues che rimanda ai suoni minimali degli esordi. Polly Jean fa tutto da sola - composizione, produzione, registrazione, missaggio - e suona tutti gli strumenti, con il solo aiuto di Head come assistente al mixer e di Rob Ellis per l'esecuzione delle parti di batteria e percussioni. Ne scaturisce una raccolta di confessioni in lo-fi, attraversata da una vena ironica che si manifesta più in un livore languido (le sommesse rimostranze di "Shame", le minacce sussurrate in "The Pocket Knife") che nelle scenate a luci rosse di un tempo ("Take the cap/ Off your pen/ Wet the envelope/ Lick and lick it" di "The Letter" che non lascia molto spazio alle interpretazioni). Harvey è maturata come musicista-strumentista; la chitarra non è più l'unica arma a sua disposizione: "It's You", ad esempio, sfoggia un bel giro di pianoforte, "Shame" un delicato sottofondo d'organo, "The Slow Drug" pulsazioni trip-hop di synth nel solco di "Is This Desire?", mentre "You Come Through" evoca persino scenari esotici, con i suoi tribalismi africani di xilofono e tastiere. Ma il disco segue sempre la solita strada maestra: un alternarsi di slanci viscerali e ballate dolenti, all'interno delle dodici battute del blues. Ed è una blues-girl di razza quella che intona l'iniziale "The Life And Death Of Mr. Badmouth", propulsa da un riff ossessivo di chitarra. La rockeuse che fa la voce grossa c'è ancora, ed è la protagonista di due degli episodi migliori della raccolta: l'hardcore smargiasso di "Who The Fuck?", lacerato dal canto distorto di Polly Jean e da tre-quattro riff al fulmicotone, e il vigoroso singolo "The Letter", quello che con "Cat On the Wall" sembra più legato all'esperienza "stoner" delle "Desert Sessions" di Josh Homme, alle quali Harvey ha recentemente partecipato. Più spesso, però, Polly Jean preferisce scivolare su un registro dimesso, imbracciando la sua chitarra acustica ("The Desperate Kingdom of Love", lieve e austera al contempo, e "The Pocket Knife", trait d'union con il folk-rock di Stories From The City, Stories From The Sea), oppure tratteggiando scarne ballate come "The End" (dedicata all'amico attore e musicista Vincent Gallo), "The Darker Days Of Me & Him", mesta elegia sul dopo-separazione, e l’assaggio di "No Child Of Mine", brano scritto appositamente per Marianne Faithfull poi incluso in “Before The Poison”...). Una sequenza non priva d'interesse, ma forse troppo lunga per l'armamentario melodico di cui dispone la dark lady del Dorset. I testi sono, al solito, impregnati di un lirismo noir alla Cave, sublimato nella minacciosa "The Pocket Knife". Uh Huh Her è un'istantanea realista dell'attuale PJ: niente più trucchi ma solo la riproposizione di un songwriting un po' autoreferenziale che forse ha il solo torto di aver creato assuefazione nell'ascoltatore.
PJ HarveyIntanto si capisce chiaramente che Polly Jean continua la sua salutare relazione sentimentale ma emerge anche un grande errore da parte della cantautrice: quello di essere tanto innamorata da dipendere totalmente dal suo uomo. Errore che si rivelerà fatale con la fine della relazione: White Chalk (il titolo si riferisce ad una suggestiva zona del Dorset) uscito nel settembre del 2007 è un album di completa solitudine, in cui Polly Jean è ormai inerme. Un disco intimista, composto al pianoforte, dove le atmosfere sono chiare sin dalla copertina che vede una Polly Jean in versione “spiritica” con foto che sembrano più santini che forma promozionale. Il disco di una donna sola che si mette a nudo, si piange addosso, senza per questo essere inutilmente drammatica o lagnosa.
Il gruppo che c’è, ma si sente poco: ci si accorge appena del clavicembalo, delle tastiere, dell’arpa, di interventi elettronici, e la loro presenza rischia di passare inosservata, perché tutto gira intorno al tormento di Polly Jean, mai così nuda in nessuno dei suoi dischi. Un disco di solitudine assoluta: nell’introduttiva ed esaustiva “The Devil” (“As soon as I’m left alone – The Devil wanders into my soul”), nella criptica “The Piano” (“Oh God I miss you”), in “To Talk to You” (lettera aperta alla nonna scomparsa durante le lavorazioni di “Uh Huh Her”) e in “Before Departure” (la lettera d’addio di un suicida). Menzione speciale per “When Under Ether”, primo singolo estratto, meraviglioso nella sua melodia.
White Chalk è un disco tanto scarno da essere quasi perfetto, manca solo un po’ di quella melodia che aveva impreziosito tanto Is This Desire?.
Nel 2006 erano usciti anche Please Leave Quitely e The John Peel Sessions. Il primo è un Dvd pubblicato controvoglia dopo aver ceduto alle pressioni di fan ed etichetta discografica. Non si tratta della registrazione di un unico concerto, ma di un ensemble per far capire allo spettatore quanto sia ripetitiva la vita in tour. Deludenti anche le Peel Sessions che, a causa del noto perfezionismo di PJ, non sono complete e forse presentano addirittura voci “ritoccate”.
Nel 2009 la coppia inossidabile PJ Harvey-John Parish, ormai in odor di nozze d’argento, torna all’opera nell’ideale seguito di Dance Hall At Louse Point, non a caso intitolato A Woman A Man Walked By (anche se, per dirla tutta, si tratterebbe d’un immaginario menage a trois completato da Flood, già con loro tredici anni fa). Un album intenso, diretto, salace.
Lo si capisce già dall’opener e singolo “Black Hearted Love”, tiro indie anni 90, dimensione anthemica, quasi Fm. Lo conferma, di filata, “Sixteen, Fifteen, Fourteen”, duetto per banjo e chitarra acustica, folk malato e spasmodico, e PJ che risale fino alle più scatenate performance vocali della sua adolescenza. E se l’autoharp di “Leaving California” e “The Soldiers” rimanda ad atmosfere neo-vittoriane, nell’esplosiva title track Parish ricarica le batterie del suo fregolismo vocale (recitato, gutturale, falsetto, screaming) in una sorta di abbacinante inno post-femminista alla mascolinizzazione che sciama fino alla chiusa electro-percussiva da kabuki psichedelico (denominata “The Crow Knows Where All The Little Children Goes”) e sugli stessi toni apocalittici si eleva il paleo-grunge tribale per farfisa e chitarra di “Pigs Will Not”. “The Chair” condensa in due minuti e mezzo bassi dub, ritmiche kraut, ripartenze chitarristiche e ascensioni chiesastiche; “April” e “Passionless, Pointless” fondono elettronica downtempo e dream-folk con PJ che mesmerizza la scena come una soprano strangolata nell’abbraccio d’un fantasma dell’opera.
Ed è sempre John Parish, assieme all'altrettanto fido Flood e a Mick Harvey, a co-produrre (e a suonare) quello che a tutti gli effetti può essere considerato il successore di White Chalk.
Let England Shake viene registrato addirittura in una chiesa ma non ricalca le atmosfere di quell'album così scarno e intimista; quell'eterea creatura che bisbigliava, chiusa nella sua solitudine, di diavoli, spiriti e suicidi e che dichiarava il suo amore al natio Dorset, qui termina il suo percorso catartico e ritorna a dialogare col prossimo, sostenuta da un'inaspettata ventata di estroversione.
Liberata dai suoi demoni o impazzita per il troppo struggimento, la voce di PJ Harvey acquista la spensieratezza dell'infanzia. Canta di un argomento universale come la brutalità delle guerre, ma con lo sguardo tenero e al tempo stesso distaccato di una bambina.
Non sono l'angoscia né la rabbia a far da padrone (eccezion fatta per il turbinoso crescendo di "All And Everyone" e per la nervosa "Bitter Branches", uno dei pochi brani, assieme a "In The Dark Places", che forse potrebbe accontentare i vecchi fan). Le sostenute ritmiche acustiche donano infatti un sapore folk e, a tratti, un'atmosfera paradossalmente scanzonata o addirittura buffa, come nella fanfara di "The Words That Maketh Murder".
È un album che sa di antico, quasi di rurale, che culmina appunto con una cadenzata ballata dai toni tradizionali come "The Colour Of The Heart" (in duetto con Parish); ascoltarlo è come sfogliare un vecchio album di fotografie in bianco e nero ingiallite dal tempo, provando a immaginarne i colori, suggeriti qua e là dal jingle-jangle dell'autoharp, che puntella diversi pezzi, dalle sparute incursioni di un sax baritonale, dal campionamento di una tromba che suona l'adunata nella trascinante "The Glorious Land" o ancora dal canto mediorientale che si sovrappone a quello sferzante della Harvey in "England".
Indossato un abito sonoro ormai fuori dal tempo, Pj Harvey assume ormai il fascino di una più classica e matura cantastorie, che per farsi ascoltare non ha più bisogno di gridare, ma lascia parlare le sue canzoni, sorrette da un'accessibilità melodica che mai svilisce la ricercatezza d'intenti.