Festival della Teologia a Piacenza
dal 01 al 31 maggio 2009
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Il festival si articola in una serie di eventi di forma eterogenea: conferenze, seminari, tavole rotonde, concerti e mostre che accompagneranno il visitatore all'interno di un viaggio di scoperta di Dio e della sua complessità.
Il problema della teologia occidentale, la domanda "pro" o "contro" Dio, emerge in tutta chiarezza attorno alla questione del male, problema che, per Sequeri, non si definisce solamente nei termini di un principio critico nei confronti dell'esperienza religiosa - e dunque con l'effetto distanziante dell'ateismo di protesta. E' "critico" in quanto "fondante", "in quando istituisce - scrive il teologo - concretamente il rapporto religioso come esperienza sofferta della trascendenza di senso".
Esperienza che è apertura a Dio nelle figure del bisogno e della invocazione: "liberaci dal male". L'esperienza religiosa vive di questa polarizzazione, perché è proprio la scandalosa eccedenza del male che solleva il tema della trascendenza del senso. L'ateismo che nasce per protesta nei confronti dell'esistenza del male ha bisogno del suo oggetto polemico, dell'affermazione di un Dio che rende scandaloso il male.
Riproporre con il Festival della Teologia la questione del male, e i motivi di questa protesta, non può non porsi entro questo orizzonte al contempo metafisico - perché in riferimento a Dio come oggetto polemico - ed etico, in quanto vive lo scandalo dell'ingiustizia del male. Riproporre la questione etica e metafisica del male significa contrapporla alla figura dell'indifferentismo religioso, entro la quale il male non presenta più il suo aspetto scandaloso.
L'indifferentismo religioso elude ultimamente il problema del senso e della negazione di senso, andando a scontrarsi anche con quella "ragione critica" post-illuminista che, da Adorno in poi, ancora vive della dialettica antropologica fra autentico e inautentico.
La questione del male si lega infatti all'esigenza di un nuovo umanismo. Cos'è infatti il neopaganesimo se non la distruzione del tragico, dell'uomo che si chiude all'invocazione "Liberaci del male" perché questa salvezza è lasciata all'orizzonte intrascendibile della tecnica? "Visto che si deve in ogni caso morire - scrive Salvatore Natoli -, è bene che si muoia nella persuasione di stare bene". Se la tecnica elimina la sofferenza è terapeutica. Ma la tecnica vuole eliminare il senso della sofferenza. Ciò che appare nella sofferenza è l'uomo che oggi si vuole dimenticare. In una società in cui il corpo vivo del sofferente non c'è più, anche la responsabilità e la pietas diventano parole insignificanti.
Per questo Dio preferisce la sofferenza di Giobbe ai teoremi teologici degli amici. "La sua storia è per eccellenza quella della ricerca di Dio, evitando tutte le scorciatoie della teologia codificata e semplificata. Egli non abbandona mai questo filo anche nel silenzio più totale di Dio, nell'abisso dell' assurdo: ed è per questo che alla fine Dio, ignorando le bestemmie e le proteste, preferisce la sua fede nuda alla compassata religiosità dei suoi avvocati difensori teologi".
Di fronte alla sofferenza, la teologia contemporanea ha spostato il riferimento da Genesi a Esodo e a Giobbe. Come a dire "da una interpretazione rigidamente amartiocentrica ed espiatoria del problema del male con l'immagine di un Dio della solidarietà e della sofferenza e della liberazione dall' oppressione" come si ritrova in Esodo, e "conferendo più decisivo rilievo a quella protesta contro lo scandaloso eccesso del male che, nel racconto di Giobbe, appare appunto accolta dalla rivelazione biblica".
Legittimare la protesta di Giobbe significa togliere da Dio l'ombra odiosa di un calcolo premeditato dell'ingiustizia e il sospetto di "assenze troppo giustificate sul fronte della lotta per la liberazione dell'uomo dal male". Significa rifiutare lo schema semplificatorio moralistico della proposta sapienziale che spiega il male con la teoria della retribuzione, secondo cui ogni sofferenza è sanzione di peccati personali. Dunque una provocazione etica che lascia aperta e "non ancora abbastanza pensata"- nota Sequeri - la domanda metafisica.
Se è impossibile infatti affrontare il male come questione pratica, elaborando una teologia che mira semplicemente a rimuovere l'ostacolo, altrettanto forte è la tendenza teologica di assegnare al male un ruolo definito all'interno di un sistema di comprensione della realtà di Dio e del mondo, ripercorrendo la via della teodicea tradizionale. In realtà "per Giobbe il mistero del male - scrive Ravasi - che viene fatto balenare in tutta la sua tragica violenza e verità, deve condurre al vero Dio in modo molto più genuino di quando lo faccia l'esistenza del bene".
La questione teologica del male che dunque ha voluto riproporre il Festival di Teologia rimanda al male "come ad una domanda su Dio ed è solo a Dio che il male parla". Non l'interrogativo critico della ragione separata, autonoma ed autofondata, non la posizione dell' ateismo rassegnato, che insieme alla domanda sullo scandalo del male toglie di mezzo anche il senso dell'esistenza umana.
L'interrogativo riguarda la possibilità e l'esigenza di " 'vedere' - scrive Ravasi - attraverso un'autentica esperienza di fede". Una trascendenza di senso che si percorre non come luogo teorico ma come passione etica, pena lo svuotamento dell'esperienza religiosa e della sua capacità di orientamento esistenziale. "l'irrazionalismo religioso - scrive Sequeri - come l'indifferenza secolare, vengono oggi più dalla 'rassegnazione' che dallo 'scandalo' nei confronti dell'esperienza del male".