Copenaghen
il 20 febbraio 2009
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Bohr e Heisenberg, due ex compagni di ricerche costretti dalla guerra a guardarsi con sospetto, si trovarono imprigionati in un labirinto di domande che stentano a trovare risposta, come sommerse da ambiguità e dubbi estenuanti sul rapporto tra potere, scienza e morale.
Le angoscianti riflessioni, alla vigilia del primo devastante uso della bomba atomica, procedono con implacabilità storica, tensione umana e congetture scientifiche immersi in una scenografia firmata da Giacomo Andrico, formata da nere lavagne pregne di formule, in una infinita serie di calcoli che riempie lo spazio. Nel dramma di Frayn vi è una vibrazione incessante e dolorosa che attinge dal conflitto tra esperienza quotidiana e ciò che la trascende: questi uomini che hanno reinventato il mondo e che, forse, hanno contribuito a distruggerlo, vivono di fatto nell’indeterminazione da essi stessi creata e nello stesso tempo è come se volessero disperatamente risalire alla causa prima, alla verità. Una storia vera ricostruita dopo la scomparsa dei protagonisti dai rispettivi fantasmi, a loro tocca offrire una serie di successive versioni contraddittorie di uno storico incontro misteriosamente velato da fatali sottintesi.
La regia di Avogadro è attentissima a sondare i contenuti scientifici senza disdegnare gli appigli comunicativi, puntando soprattutto sui ritmi in una sorta di arena processuale dove si fronteggiano i due scienziati: un teso e intenso Umberto Orsini con risvolti di sofferta ironia, un tormentato e coinvolgente Massimo Popolizio, siglati dalla pura maturità e saggezza di Giuliana Lojodice.