Aspettando Godot di Samuel Beckett
dal 12 al 13 febbraio 2010
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Non siamo, ovviamente, di fronte a una «eduardizzazione» del testo, a una sua trasposizione in una chiave in qualche modo partenopea: se si esclude una sola scena, quella della stralunata gara di insulti tra Vladimiro ed Estragone, l'accentuazione pittoresca, la coloritura dialettale resta sfumata e come sullo sfondo. Basta tuttavia quella lieve cadenza, bastano quei ritmi ricalcati da una diversa tradizione scenica a spostare impercettibilmente i toni della costruzione beckettiana, ad accentuarne una certa scoppiettante comicità, livida, allibita ma priva almeno della solita convenzionale cupezza metafisica. Non è però la comicità di Felice Sciosciammocca, non è la comicità di Totò e Peppino a emergere da questo misurato allestimento, sostanzialmente fedele alla finta spigliatezza dell'autore: i due personaggi principali sottolineano qui ulteriormente alcuni loro tratti da clown circensi, compiono piccoli giochi di prestigio estraendo dalle tasche interminabili serie di fazzoletti e ogni sorta di incongrui oggetti quotidiani. E tutto questo allucinato microcosmo tende nel complesso a uno stile da cinema muto, dove sono esplicite le citazioni di Stanlio e Ollio, di Buster Keaton, dello stesso Chaplin.
Il taglio nervosamente burlesco non cancella e non attenua, ripetiamolo, le abbacinanti profondità della scrittura beckettiana. Poche volte come in questa occasione è parso, anzi, di sentire tanto evidenziata l'ipotesi che la salvezza attesa dai protagonisti non sia, in fondo, che la fine della vita, l'arrivo della notte e della morte. E proprio alla luce di una tale lettura sembra ancora meno convincente la scenografia di Enrico Job, un'enorme pagina a quadretti al tempo stesso ingenua e macchinosa, con un sole e una luna sommariamente tratteggiati e una sagoma d'albero ritagliata da un disegno candidamente infantile.